Tre anni dopo aver difeso il valore del capitale umano ne “La legge del mercato” (2015) e accantonata la fiacca parentesi letteraria di “Una vita” (2016), Stéphane Brizé torna alle fatiche del dramma sociale, riportando con sé anche il suo attore protagonista. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, ne “In guerra” Vincent Lindon reinterpreta un uomo semplice della classe operaia che, data l’aggressività di un capitalismo inasprito dalla globalizzazione, deve combattere per i propri diritti di uomo e di lavoratore. È la riproposizione della lotta impari della persona comune schiacciata dagli ingranaggi spietati dell’economia. Come nel precedente, anche in questo film vengono poste domande sulla moralità e su quanto siamo disposti a gareggiare nella mortificante arena del lavoro con chi condivide la nostra amara situazione. E soprattutto, quale valore ha l’individuo oggigiorno e se persiste uno spazio empatico in una società strutturata nei termini della redditività e dell’efficienza.
Nonostante ampie concessioni finanziarie e un accordo siglato due anni prima a garanzia dei posti di lavoro, ora si è deciso diversamente: lo stabilimento automobilistico di Perrin, situato in una regione economicamente debole della Francia, dovrà chiudere. Così è stato stabilito alla casa madre tedesca, malgrado questa decisione metta a repentaglio il futuro di 1.100 lavoratori, poiché nella zona non vi sono praticamente altri posti di lavoro. Le reazioni non tardano ad arrivare: sotto la guida del sindacalista Laurent Amédéo (Vincent Lindon), la protesta comincia a montare. I lavoratori vanno alle barricate, invocano l’intervento della direzione locale e avanzano soltanto una richiesta: sedersi al tavolo delle trattative con l’amministratore delegato della sede centrale. Grazie alla loro caparbietà, i lavoratori riescono a intascare piccole vittorie parziali. Ma una singola battaglia vittoriosa non significa vincere la guerra, soprattutto quando i soldati operai non sono affatto coesi su come raggiungere l’obiettivo.
“In guerra” è la riproposizione della lotta impari della persona comune schiacciata dagli ingranaggi spietati dell’economia.
A prima vista potrebbe sembrare un titolo esagerato, ma la guerra combattuta nel film di Stéphane Brizé non è una guerra di battaglie decisive in cui tutto è finalizzato a infliggere in un colpo solo la sconfitta al nemico. La personalità di Laurent non è fatta per una guerra del genere, non è un’arma adeguata a manovre improvvise o rapide. La sua modalità d’azione è quella del fuoco di batteria, e la guerra in cui viene usata può essere solo quella di logoramento. Resistere quindi, ma questa resistenza è un bene fragile che richiede d’essere ravvivato costantemente dal fuoco della solidarietà di classe. E non c’è mantice più efficace della prospettiva concreta di un obiettivo raggiungibile, anche se ingiusto. Questo è il compito imposto a Eric Laurent nel film. Nella sua voce deve concentrarsi la protesta dell’intera classe lavoratrice e poi dare a questa una direzione e una coesione interna.
Nella prassi di un film-saggio Stéphane Brizé traccia il meccanismo del processo di sciopero. Le fasi della protesta si susseguano a un ritmo turbolento. Prima c’è lo shock e l’indignazione, dopodiché il lavoro viene spontaneamente sospeso. La responsabilità passa nelle mani della gestione locale che afferma che la decisione non è imputabile a essa ma alla casa madre. Invano, gli scioperanti aspettano un segnale positivo dalla Germania. A questo punto, con l’aiuto di un avvocato del lavoro, seguitano i primi passi legali per citare in giudizio la violazione dell’accordo sociale di 2 anni prima. Dopotutto, è stato stretto un patto con la società con cui i lavoratori accettavano il blocco salariale in cambio di un impiego a tempo indeterminato. A poco a poco le azioni si acuiscono e la rabbia cresce perché, nonostante i sacrifici finanziari fatti dal personale, la direzione tedesca vuole incrementare il proprio capitale attraverso la delocalizzazione.
“In guerra” tenta di svelare i meccanismi sociali o neoliberali che operano dietro le quinte.
La protesta entra nel vivo potenziata da megafoni e striscioni. Ma tutti restano fermi sulle proprie posizioni. Per i delegati sindacali è il momento di dare la stoccata finale ed esigere il rispetto degli accordi collettivi e degli impegni presi dalla società. È a questo punto che le crepe nella comunanza degli scioperanti diventano tangibili: esisteranno fino all’ultimo nella protesta o accetteranno il piano di licenziamento? La posizione del regista è chiara: in un contesto neoliberista i dipendenti hanno poche possibilità di vincere. Possono far perdere denaro all’azienda bloccando la filiera e macchiandone la reputazione, ma alla fine i mezzi legislativi disponibili non consentono loro di impedirne la chiusura. Le sfumature e le riserve morali sono limitate perché al regista non interessa analizzare le differenze tra i lavoratori. Gli eroi sono Laurent e la sua squadra, una massa di uomini e donne che vivono credendo ancora nel valore della solidarietà.
L’approccio cinematografico del regista è molto più complesso delle riviste televisive a cui fa spesso riferimento col suo stile documentario. Con una cinepresa che si muove nervosamente tra il primo piano e le inquadrature di gruppo, Stéphane Brizé esamina la presunta obiettività dei servizi tv. Così facendo, “In guerra” tenta di svelare i meccanismi sociali o neoliberali che operano dietro le quinte. I suoni caotici della colonna sonora di Bertrand Blessing restituiscono efficacemente la cupa atmosfera della rabbia e del rancore nella fabbrica come al tavolo delle consultazioni. Servendosi di tre macchine da presa, la regia filma in maniera dinamica i negoziati che avvengono tra circa venti persone sedute intorno a un tavolo. In questo modo raffronta i diversi punti di vista delle parti in campo. Da un lato, ci sono i vertici della fabbrica che criminalizzano la protesta sociale. Dall’altro, i rappresentanti sindacali difendono il loro diritto morale.
“In guerra” non mette in ridicolo nessuno ed evita ogni forma di semplificazione o distorsione caricaturale nella rappresentazione dell’opposizione sociale.
Il confronto è motivo di feroci discussioni ideologiche su questioni spinose come il diritto di sciopero dei lavoratori e il diritto dei proprietari di decidere liberamente per i propri interessi. Questi possono essere esercitati indefinitamente? La legge sul lavoro non dovrebbe essere più flessibile? Come si possono proteggere i diritti di chi non ha voce in capitolo? Questo è ciò che il film continua a chiedersi. E se dai piani alti vengono intavolate soltanto argomentazioni finanziarie, è dai dipendenti in protesta che provengono le ragioni sociopsicologiche. Può un’azienda calare le serrande se ci sono altre opzioni? Il mediatore in campo illustra l’impotenza della politica a tal riguardo: non i politici ma le multinazionali detengono il potere e non devono rendere conto delle proprie azioni nel clima neoliberista dominante. “In guerra”, tuttavia, non mette in ridicolo nessuno ed evita ogni forma di semplificazione o distorsione caricaturale nella rappresentazione dell’opposizione sociale.
Sfortunatamente, in questa guerra non ci sono i vincitori sperati. Ma a Stéphane Brizé non interessa concedere alla realtà un finale diverso. Egli vuole mostrare i retroscena della notizia di uno sciopero o di un’agitazione sindacale, evidenziando ciò che di norma viene solamente citato: l’azione arbitraria delle multinazionali; l’impotenza dei lavoratori; l’inutilità della politica che risuona nei grandi discorsi ma che, in pratica, nulla può contro i dettami economici. Il lavoro registico apparentemente disadorno risulta efficace proprio per la sua intransigenza, lasciata poi esplodere in un finale che accompagna all’uscita della sala abbastanza storditi. Vincent Lindon è tanto credibile nel ruolo che, se non lo si conoscesse, parrebbe realmente un sindacalista. Ne ammiriamo la sincerità, l’intransigenza, la perseveranza, e soffriamo con lui quando il destino infierisce implacabile. Nella guerra contro le leggi del mercato i vincitori rimarranno astratti, ma grazie al regista e all’attore almeno i perdenti guadagneranno un volto.