Gli Indianizer sono tornati e lo hanno fatto a passo di danza, tra mistica sacralità e oscura ricerca del vero. “Nadir” è il nome del terzo lavoro, risultato di un brillante e meticoloso lavoro di mixaggio ed equilibrio tra overdub digitali e registrazioni in presa diretta su nastro. La band di Torino aveva cominciato quattro anni fa questa che hanno dichiarato essere una trilogia spontanea, ora conclusa e mai dichiarata.
“Nadir” viene dopo “Zenith” e questo, dopo l’album–debutto “Neon Hawaii”. Non che la geografia fisica sia fondamentale per gli Indianizer – non lo credo – eppure è indubbio rintracciare un certo je ne sais quoi di flora e fauna diverse per ciascuna delle loro creazioni. A cambiare davvero però è la direzione del ritmo. Elemento atavico umano, base delle altezze della musica, il ritmo sembra essere il mastice che unisce le diversità celebrate in “Nadir”.
Indianizer nasce nel 2013 come esperimento lisergico per viaggi mentali
Diversità linguistiche, atmosferiche, cromatiche e intenzionali. Ascoltare “Nadir” è come immergersi in un labirinto verde giungla, incontrare i suoi diversi abitanti e lasciarsi assorbire da ciascuna sfumatura delle sei creature musicali che ne compongono l’habitat. L’importante è dimenticare ogni sovrastruttura e togliersi le scarpe. Sì, perché “Nadir” è una gigantesca pista da ballo multiforme. Vive sono le ritmiche africane e sudamericane, ma assai di più quelle della disco medio orientale.
Come hanno dichiarato i torinesi, “Nadir” è un album nato ai bordi delle dancefloor. È infatti la spontaneità, la chiave di lettura per arrivare al cuore umano, troppo umano che pulsa in “Nadir”. Estremamente vitale, entra nelle viscere e le trasforma in farfalle, camaleonti, lucertole e cammelli. È come se gli Indianizer, con “Nadir”, avessero dato vita all’ombelico del mondo moderno, autentico figlio di ogni contaminazione. Un album eccellente, che non si vede l’ora di ascoltare dal vivo. Complimenti!