Al Festival del Cinema di Berlino di quest’anno era stato presentato un film – ovviamente mai distribuito qui in Italia – dal titolo “U – July 22” del regista norvegese Erik Poppe. Si trattava della ricostruzione in un pianosequenza di settanta minuti del massacro avvenuto in un campeggio di adolescenti nel 2011 su un’isola poco distante da Oslo. L’artefice fu l’estremista di ultradestra Anders Breivik che solo due ore prima aveva fatto esplodere un’autobomba davanti all’ufficio del primo ministro norvegese, provocando 8 morti e oltre 200 feriti. Da lì l’attentatore travestito da poliziotto aveva raggiunto una colonia estiva organizzata dal Partito Laburista, uccidendo 77 ragazzi tra i 14 e i 20 anni.
Un fatto cruento, il più atroce della storia moderna norvegese ma in effetti anche dell’Europa tutta. Forse risiede proprio in questa stretta cittadinanza la ragione che ha spinto un regista polivalente come Paul Greengrass, da sempre diviso tra indipendenza e mainstream, a spostarsi dall’Inghilterra al Mar del Nord per riproporre quella stessa inquietante vicenda nel suo “22 July”. La sceneggiatura stavolta si estende oltre la località del massacro, basandosi sulla testimonianza diretta di uno dei ragazzi sopravvissuti, tratta dal libro di Asne Seierstad. Greengrass adotta con convinzione questo punto di vista per infondere nella storia dei risvolti umani, e non solo cronachistici.
“22 July” resta un buon film che preferisce non addentrarsi mai veramente in zone rischiose.
“22 July” si sviluppa nel noto per mezz’ora, presentando i fatti in modo asciutto e credibile, costruendo la capitolazione sanguinolenta di Utoya con efficace presa viscerale. La tensione fa presa mista a inevitabile dramm, a cui Paul Greengrass fa seguire un film su quello che significa essere un sopravvissuto. E il senso di morte, di inspiegabile selezione del destino e infine anche di rinascita, inevitabilmente. Il regista affianca alla resilienza del giovane sopravvissuto (Jonas Strand Gravli) il bisogno per un’intera nazione di fronteggiare l’accaduto. In parallelo, non risparmia le deliranti ragioni dell’attentatore (Anders Danielsen Lie), motivato irreprensibilmente dai suoi – e non solo – fanatismi nazisti.
Nella seconda parte il film soffre di sfocature romanzesche piene di pathos, motivate dall’esigenza di allargare su più fronti il discorso sul terrorismo. Le conversazioni tra Anders Breivik e il suo ombroso legale (Jon Øigarden) e quelle tra Asne e una sopravvissuta pakistana di terza generazione sono funzionali a tagliare il racconto a misura d’uomo. Di tanto in tanto saltano fuori dalla visione questioni che ti mettono scomodo; su tutte la tenaglia degli inviolabili diritti umani, baluardo delle democrazie nordiche. L’opinione pubblica e i familiari delle vittime esigono il carcere quando Anders Breivik viene ritenuto schizofrenico, ma il folle attentatore ha piani diversi, futuri e deliranti (anche se oggi appaiono credibili e inquietanti). Quindi cambia idea e la sua difesa punta al carcere: vittima e carnefice finiscono per desiderare lo stesso esito. Come comportarsi adesso?
Le ambiguità etiche di spessore però non hanno seguito la regia di Peter Greengrass, modesta ma funzionale alla vicenda.
Le ambiguità etiche di spessore però non hanno seguito la regia di Paul Greengrass, modesta ma funzionale alla vicenda. Il regista orchestra racconto e forma come aveva fatto in “United 93” (2006), mescolando dramma personale e situazionale a interpretazioni – e purtroppo spiegazioni – dalle mire onnicomprensive. Trattenuto dall’incapacità di cogliere il proprio potenziale, costretto a muoversi lentamente come il suo protagonista, “22 July” resta un buon film che preferisce non addentrarsi mai veramente in zone rischiose, confidando nella presa facile della vicendo, ma dimentico che i difetti sono sempre lì. E possono portare il film al collasso, come le schegge di un proiettile sul tronco encefalico.