Do un caldo benvenuto a Dario Ciffo sulle pagine di Music.it. Vorrei subito domandarti se c’è un aneddoto particolare legato alla tua svolta solista e se ce lo vuoi raccontare. Niente che sia nelle biografie ufficiali.
Ciao a voi! Intanto, prima di chiamarla svolta solista, io parlerei più di un altro lato mio. È un piccolo episodio che va in parallelo a quello che ho sempre fatto. Un piccolo esperimento. Non è che sia una svolta. Perché porto avanti tutto col mio solito stile. Un aneddoto particolare non ce l’ho. Però, mi sono divertito a fare questi quattro pezzi diversi dal mio classico sound. Uscire dal mio mondo, da quella sorta di comfort-zone, per usare un termine calzante. Pensare a far qualcosa di diverso, capire come farlo. Anche dover cambiare il modo di cantare e adattarlo a questi suoni diversi dal costrutto che conosco e che ho utilizzato finora. La scrittura rimane quella e un filo conduttore c’è. Ma, se proprio, posso dire che in generale l’aneddoto è stato questo di divertirsi a tirare fuori qualcosa con ingredienti diversi.
E, senza dubbio, è interessante conoscere ogni aspetto legato a un cambiamento, a un’esplorazione di sé. Volendo andare un po’ più a fondo, ti chiedo allora come sia nata l’idea di questo progetto.
In verità mi era stato commissionato un pezzo da un magazine che si occupa di musica. Avevano chiesto a diversi artisti di realizzare una canzone per loro in occasione di un evento speciale. Senza voler andare in studio e fare cose canoniche e anche per fare più in fretta, ho contattato una persona che conoscevo e che avevo incontrato diverse volte. Lui, assieme a un altro ragazzo, facevano robe al computer, quindo li ho contattati per questa necessità di realizzazione breve. È che ci siamo divertiti e così gli ho chiesto di fare qualcosa in più. Abbiamo iniziato a vederci regolarmente. Abbiamo poi deciso di fare uscire, tra altre in bozza, cinque dei pezzi che avevamo fatto e che poi sono finiti sull’ EP. Ecco come è nato il progetto.
Beh, direi che questo è un autentico aneddoto. Procedendo sull’onda della tua narrazione, che pone il tempo, la curiosità e il divertimento come elementi creativi, ti chiedo: quando hai capito che avresti fatto musica?
Da bambino mi piaceva ascoltare tanta musica. Lo facevo in continuazione. Dalle canzoni dei cartoni animati a The Beatles. Quello è un gruppo che mi è interessato subito. Mio padre aveva questa raccolta in vinile e io ricordo queste casse appoggiate a terra dove da una parte c’erano magari basso e batteria e dall’altra la voce. E io mi divertivo a trascinarmi per terra ad ascoltare una cosa e l’altra per sentire solo quella cosa o solo uno strumento. Questo attaccamento alle casse dello stereo o al mangiadischi portatile era la mia bombola d’ossigeno. Anche a scuola. Piuttosto che giocare all’aria aperta, io stavo in classe ad ascoltarmi le cose. Quindi ho sempre avuto il desiderio di ascoltare e questo anche adesso. È la mia droga, la mia dipendenza.
Il violino è stato il tuo strumento da subito?
Sì. È successo per caso, in realtà. Visto che ero così appassionato, ho pensato di approfondire frequentando una scuola d’indirizzo musicale. Non è che il violino lo avessi scelto espressamente, però la classe era piena e l’insegnante mi disse che c’era spazio per la classe di violino dicendomi anche di avere delle belle mani adatte allo strumento. Per me andava bene. Non è che avessi in mente uno strumento particolare, l’importante era imparare la musica, le note. Fare qualcosa di più che ascoltare. Impegnarmi mi piaceva, visto che era il mio più grande passatempo e che fosse il violino, la chitarra o il pianoforte, per me era lo stesso.
Però ti è capitato il violino. Uno strumento poliedrico, che però è grande protagonista della musica classica. Mi domando se una volta approcciato questo studio i tuoi gusti si siano evoluti o trasformati in base allo strumento.
Direi proprio di no. A me è sempre piaciuta la forma canzone. Musica e testi. Anche adesso, del resto. Non sono un ascoltatore di classica, non ne sono un gran conoscitore. Mi piacciono le melodie ed il violino è uno strumento melodico.
A questo punto ti faccio due domande. Quali sono le influenze musicali che ti hanno accompagnato finora? E quale è stata la prima canzone che hai provato a suonare?
Le prime cose che ho ascoltato sono appunto The Beatles, per quanto sia banale. Ma chi non l’ha fatto? C’erano anche i genitori che ti indirizzavano verso quelle cose. Anche il padre di un mio amico ricordo che ascoltava belle cose. La prima canzone che ho imparato a suonare, invece, non la ricordo, ma era un pezzo di Lucio Battisti. Ti dico anche che ho una formazione alternativa, una band con cui rifacciamo tutti i pezzi di Lucio Battisti.
C’è una grande continuità che vige nella tua formazione e ispirazione. Passiamo a “Sarebbe Bello”, il tuo primo EP da solista, da Dario Ciffo. Ho grande curiosità di sapere perché mai hai scelto proprio questo pesce, la brotula, come immagine di copertina e come oggetto del brano che è stato il singolo estratto.
Il pesce, in sé, è una metafora. Mi sono detto “perché non fare una canzone che parli di un pesce?”. Tanto si può fare di tutto. Ero andato fisicamente a comprare del pesce. Non avendone altri rimasti, mi hanno proposto questa brotula. Non l’avevo mai sentita, né vista e mi ha incuriosito. A vederlo, non era proprio tanto bello. Sembra un pesce preistorico. Questa cosa qui mi ha colpito e ho pensato di farci una canzone. Ovviamente, è una metafora sul fatto di non essere affascinati dall’estetica, ma di guardare al succo delle cose. Quindi, anche se un pesce all’apparenza non è tanto bello – ed io nella canzone dico che magari è per questo che lo fanno vedere solo a tranci – poi però te lo vendono perché è buono. E quindi con ironia esploro questa duplicità. Doveva essere la hit della scorsa estate, ma invece non è andata così.
Ed ecco che mi hai dato un altro aneddoto!
Sì, io scrivo della quotidianità. Parlo e ho sempre parlato di me. Dall’andare a comprare del pesce alle mie situazioni sentimentali. Non sono un creatore di storie, di romanzi. Vorrei poterlo fare, però non mi viene. Uso parole semplici, un vocabolario dell’uso quotidiano. Ad esempio, non amo molto i grandi cantautori. Preferisco, che so, un Rino Gaetano, col suo modo di esprimersi abbastanza semplice e che descrive la vita e le situazioni di tutti i giorni. Cantautori realistici. Poi lui non risparmia una critica o uno sguardo al sociale. Ma io questo non lo faccio mai.
Beh, con “Brotula”, non è difficile cogliere un invito a non lasciarsi andare a quella che è poi la società contemporanea, molto incentrata sull’immagine. Ascoltare questa canzone oggi può avere questo senso.
Certo, questa è una possibile chiave di lettura che apre a questo tipo di riflessione. Per quello che può essere impegnata una canzone del genere, sì. Ma le mie non sono mai tematiche prettamente sociali o impegnate come quelle dei cantautori impegnati.
No, infatti. E neanche voglio snaturarti. Però prima dicevi che questo singolo doveva essere una hit che poi hit non è diventata. Quindi ti chiedo, secondo te, qual è la caratteristica che un brano deve possedere per diventare una hit?
Se lo sapessi sarei contento, ma non lo so. Forse, posso dirti di aver capito che una cosa del genere non dipende dalla sola canzone. Mentre nei sogni del musicista c’è l’idea di fare sempre belle canzoni e che magari diventino delle hit, non è che non lo diventano solo perché le canzoni non sono belle. Non parlo solo di me. Ho visto che ci sono belle canzoni non tanto conosciute come altre, magari meno belle, che invece sono diventate hit. Quindi, le motivazioni sono da collegare anche a delle dinamiche che stanno dietro al prodotto. Una hit, insomma, non è solo una canzone. Questa può essere una specie di provocazione. Poi, se la canzone è brutta, puoi spingerla quanto vuoi, ma magari non diventa una hit.
È interessante notare come l’estate sia una stagione a sé rispetto ai tormentoni. D’estate esce roba proprio brutta. Colgo questa parentesi per domandarti una curiosità. Tu che hai suonato il violino negli Afterhours per circa vent’anni, cosa pensi del fatto che Manuel Agnelli sia diventato un giudice di X Factor? Un talent che sforna bei pezzi e gente anche di talento, ma che comunque può essere percepita come una sorta di fabbrica?
Non mi ha stupito. Ho trovato questa scelta in linea col fatto che un musicista voglia farsi conoscere sempre di più. Approdare alla TV significa darsi maggiore visibilità ed è una cosa che ogni artista cerca di fare. Quindi l’ho trovata normale come operazione. Avrei trovato più strano se avesse detto di no. Poi, ognuno continua a fare la propria musica. Non è che stai lì e allora diventi Fedez. Manuel Agnelli rimane sempre Manuel Agnelli. Quindi, ci sta. Molti lo conosceranno più come persona popolare e magari non apprezzeranno comunque le canzoni. Altri invece lo conosceranno di più e apprezzeranno anche la sua musica. Non è detto che la popolarità comprometta la musica. Manuel Agnelli era già popolare senza la TV. In più oggi lo conosce anche la casalinga che non si è mai occupata di musica. Poi, vai a vedere se si va ad ascoltare anche il disco.
Ti dico che da fan degli Afterhours l’ho vissuta con delle riserve. Pensando però che Manuel potesse essere un valore aggiunto, che il suo stare lì potesse portare a far conoscere anche un altra sfera della musica.
Non credo che occorra cercare le motivazioni o giustificazioni di una scelta. Uno fa le cose perché le fa. È normale che se uno fa musica utilizzi anche la televisione come mezzo di diffusione. Pensa ai videoclip. È sempre stato così. Fa parte del tuo lavoro. Non è che uno si isola o si censura. Finché lui riesce a fare quello che fa e non gli mettono in bocca le parole che non sono le sue, può fare quello che vuole. Se lo avessero proposto a me io avrei detto subito di sì.
Tornando a “Sarebbe Bello”. È passato un anno quasi esatto dall’uscita. In retrospettiva, cosa ti ha lasciato questa esperienza in termini di tour che, per l’appunto, ti ha voluto in giro come solista?
Quello che mi ha dato quest’esperienza me l’ha dato quando l’ho fatto. Mi sono divertito. Ho fatto fatica a portarlo in giro perché, effettivamente, io vengo più da formazioni rock. Quindi per renderlo esattamente com’è non è facile perché è molto elettronico. Le batterie sono elettroniche, ci sono molti synth. È un progetto più da ascoltare, che si presta poco per quel tipo di background da cui provengo. Però, non fa niente. Mica bisogna per forza fare le cose uguali. Una cosa è il live e un’altra le registrazioni. A me diverte fare musica e sperimentare e questo disco era qualcosa per mettere in mostra qualcosa di diverso che fosse comunque mio.
Con il progetto Lombroso, invece, come procede?
Stiamo facendo qualche data, poi abbiamo idea di uscire con qualcosa di nuovo. Diciamo che, in sostanza, continuo tutto quello che mi fa stare bene. È un progetto-sfogo che mi è utile anche per fare altre cose mie. E lo fanno in tanti. Anche il cantante dei Subsonica ha il suo progetto solista e continua coi Subsonica. Questo era per fare un esempio, non è che io sto a quel livello di popolarità.
Beh, non sei di certo l’ultimo arrivato. Piuttosto, credi che le sonorità elettroniche sperimentate in “Sarebbe Bello” possano contaminare le ispirazioni del sound dei Lombroso?
No, i Lombroso hanno una loro identità che si crea dalle unioni di noi due. Insieme, facciamo un tipo di suono che non dobbiamo neanche studiare. Lo facciamo in maniera facile e istintiva, senza dover pensare troppo a come farlo. Lascio che quello che sono i Lombroso esca in maniera naturale come esce da sempre. Dopodiché sì, da solo ho più libertà di fare qualcosa di diverso. E questo è anche più difficile perché hai troppe possibilità e quindi è come quando entri in un negozio di vestiti. Se hai due capi che ti piacciono sai subito quale prendere. Se ne hai 300 e ti piacciono tutti cosa fai? Quindi, quando lavoro con Agostino Nascimbeni esce subito e chiaro qualcosa di bello. Se invece, come in questo caso, mi approccio col computer dove c’è una libreria sconfinata di suoni, c’è la difficoltà di troppa scelta e mi viene difficile.
Come cantava Damien Rice “Too many options may kill a man”.
È esattamente così, è vero.
Cambiamo rotta e proponiamo una scelta: qual è un concerto che non ti puoi perdere?
Devo dire che i concerti che mi interessavano li ho visti tutti. Poi, il concerto per me è una specie di scambio emotivo. Anche se magari non c’è più interesse, però con un certo tipo di musica ci sono cresciuto, mi piace andare a vederlo. Il concerto rappresenta anche l’incontro col ricordo di quando quella musica l’hai ascoltata. Ci sono tante cose in un concerto. Il sentire e condividere la musica in un contesto diverso dall’ascolto casalingo. Non saprei dirtene uno di preciso. Mi vengono in mente quelli di persone che non ci sono più. Ché poi il concerto diventa interessante nella memoria anche per quello. Ad esempio ho visto l’ultimo dei Nirvana. Toh! Questo è diventato d’interesse anche storico. E più che interessante, diventa irripetibile. Puoi dire che c’eri. Anche quello di Michael Jackson nel ’91. Preferisco il concerto irripetibile. Ho soddisfatto tutto quello che mi interessava a riguardo.
Ti confesso che è la prima volta che mi trovo di fronte a una risposta simile. E allora, cos’è che capta il tuo interesse al di fuori delle zone musicali e che poi riversi nella musica?
Io sono proprio un fissato della musica. Qualsiasi influenza non viene che da lì. Non sono un grande lettore, per esempio. E se anche mi piace qualcosa, ogni fonte se non viene dal mio vissuto, viene dalla musica. Sono molto monotematico.
Beh, senza la ripetizione non si costituisce il reale, per cui più che monotematico, direi che riesci a vivere il quotidiano della tua realtà, che poi si nutre di musica. E questo è bellissimo. Il nostro viaggio finisce qua, caro Dario Ciffo. Grazie per essere stato con noi.
Ti ringrazio e saluto tutti i lettori di Music.it.