Ciao APICE, è un vero piacere darti il benvenuto sulle nostre pagine! Noi di Music.it siamo soliti chiedere all’artista un aneddoto imbarazzante legato alla propria carriera musicale. Quale è il tuo?
Ciao Giulia, il piacere è tutto mio. Tranne se mi chiedi dei miei momenti imbarazzanti. Sono troppi, e tutti mi fanno ancora arrossire. Poi, uno come me è davvero tremendo quando si imbarazza, divento paonazzo e la mancanza di capelli non aiuta. Però, se un giorno ci incontreremo, te ne racconterò qualcuno. Rigorosamente all’orecchio!
Come prendono forma le tue canzoni? C’è un momento della giornata o un luogo in particolare che prediligi per scrivere?
Mah, guarda, no. Nel senso che se potessi fissarmi degli orari e dei luoghi che mi dessero la sicurezza di potermi seder comodo e scrivere una canzone, giuro, lo farei. Ma io sono solo un umile braccio della Musa, quella più imprevedibile e volubile: mi è successo di scrivere nei luoghi più impensabili, e meno romantici. La mia vita è fatta di astinenze, e di necessità; tendenzialmente, dopo un mese senza scrivere comincio a stare male. A volte, mi metto a scrivere solo per potermi dimostrare di essere ancora capace a farlo, per poi mandare in vacanza l’anima per qualche tempo. Non ci sono luoghi precisi, ma tendenzialmente cerco di buttar giù testo e melodia in simultanea, quindi il più delle volte sono vicino al mio pianoforte scordato e impresentabile, esattamente come me. Infatti, c’è una bella sintonia tra noi due.
Nel corso del tempo, quali sono state le variazioni principali subite dalla tua musica e quali sono gli album che hanno segnato e lasciato un’impronta lungo il tuo percorso musicale?
Per quanto riguarda le variazioni, credo quelle esterne alla musica. Vite che si spostano, amori che finiscono, lutti, traumi, traslochi. La musica è una diagnosi della mia vita, ecco, e contemporaneamente la più economica delle autoterapie; e poi, è un ottimo memorandum dei miei fallimenti, ma anche delle mie risalite. Se devo dirti quali siano gli album che hanno lasciato traccia di sé in quello che faccio, mi troverei a fare un torto – per necessità di sintesi – a tanti dischi meravigliosi. Allora ti dico che il mio disco preferito di Fabrizio De André è “Storia di un impiegato”, di Francesco Guccini amo molto “Quattro Stracci”, Lucio Dalla trasforma in oro tutto quello che tocca e se ascolto Giorgio Canali mi viene voglia di lanciare sassi contro i lampioni. Che a volte, potrebbe essere liberatorio.
Tutto scorre, tutto cambia e il presente è un susseguirsi di infiniti adesso. Questo è ciò che ho percepito nell’ascoltare il tuo nuovo singolo “Precipitare”. APICE, quanto sei spaventato dall’impetuosità e dalla velocità del mutamento della vita?
Tantissimo! Ho paura soprattutto della mia predisposizione alla velocità, perché nato in un contesto che ci insegnato la velocità come valore, come virtù. Abbiamo perso la cultura del pane fatto in casa, della lievitazione lenta, dell’impasto madre trasmesso da generazione a generazione. Le radici danno saggezza, e non hanno ombre; nella liquidità contemporanea, tutto si sposta, e nulla ci appartiene. A volte, ho tanta paura di non appartenermi nemmeno io; la musica, in questo senso, diventa un post-it efficace a ricordarmi cosa non sono, ma – più di ogni altra cosa – cosa sono stato. Un tempo, mi sarei dilungato di più. Ma oggi sono felice.
Quanto ti senti parte dell’attuale panorama musicale di tendenza? C’è un momento storico preciso in cui avresti voluto vivere? Quale e perché?
Non lo so, sai, io credo che la tendenza abbia diverse facce, e trovi diverse strade per imporsi, o per lasciarsi abbracciare. Ci sono le mode, le correnti artistiche nelle quali ti immergi (come nel fiume eracliteo) ma che dopo un attimo non sono più le stesse, ci sono le playlist e poi ci sono le persone. Ecco, non passa mai la moda di essere umani, e non smetteremo mai di emozionarci di fronte alle cose sincere, qualsiasi vestito abbiano. Poi, è chiaro, io faccio musica dal forte connotato riflessivo, perché alla fine scrivo per me, e ogni volta che qualcuno riesce a riconoscersi nelle mie parole mi sembra sia accaduta una magia.
Per quanto mi riguarda, ti posso assicurare che la magia è avvenuta!
Ti ringrazio! Personalmente cerco sempre di essere sincero quando scrivo, altrimenti non funziono io, prima che il pezzo. Nel mio Tempo, alla fine ci sto abbastanza bene; poi io sono voltaireiano, e credo che sia davvero questo il migliore dei mondi possibili. Certo, potrei avere qualche capello in più. Ma non sarà il mio amore per gli anni Settanta a farmi diventare un hippy capellone.
«La musica non è una cosa seria, ma è tutto ciò che conta» canti nel singolo “Inutile”, contenuto nel tuo ultimo album “Beltempo”. In che modo, secondo te, la musica può salvare le persone? E da artista e uomo sensibile, che ruolo ha questa forma d’arte nella tua vita?
Innanzitutto grazie per avermi dato non solo dell’artista, ma anche dell’uomo sensibile. “Inutile” è nata da uno sfogo: nella vita da comune mortale (dopo aver volato sui tetti e difeso il mondo dalla brutta musica come APICE), studio musica al DAMS di Bologna e si sa, noi studenti d’arte non riusciremo mai a spiegare fino in fondo alle nostre nonne che studiamo per poter lavorare in una società che sembra essere fatta solo di medici, ingegneri e avvocati. Insomma, il dramma COVID ha dimostrato come esistano, in Italia, lavoratori di serie A e di serie B; il sentire comune ha cominciato ad interessarmi poco, ma sono impaurito dall’idea di cominciarla a pensare come la società. Quindi ho scritto un pezzo che serve, come ti dicevo, da promemoria.
Sì, tutto chiarissimo.
Tutto quello a cui penso possa servire la musica è scritto dentro al brano: a costruire ponti su crolli di persone, suturare cuori a pezzi, tracciare strade che avvicinino, o che sappiano portarci lontano se vogliamo; come vedi, tutti lavori da ingegneri, da medici e da operai. Eppure questo per me è fare musica, perché questo è il ruolo che la musica ha avuto e ha nella mia vita. E sono orgoglioso e fiero di difendere il mio diritto all’inutilità, in una società che troppo spesso etichetta come inutile il teatro, la letteratura, la poesia, il cinema, l’arte, la Bellezza.
Fare musica nell’era dei social. Quanto credi sia importante per un artista lavorare sulla propria immagine? Perché?
Tantissimo! Soprattutto se sei un adone sbagliato come me. Scherzi a parte – che scherzi non sono – mi diverto tanto ad usare i social. Su determinate piattaforme ho solo il profilo “artista” e non quello personale, un po’ perché non c’è differenza tra le parti, un po’ perché certe cose – davvero personali – rimangono tali, e non sento l’esigenza di condividerle con il mondo intero. Mi diverto, dicevo, perché sulla carta sono l’anti-social per eccellenza, e credo che questo sia il motivo per il quale riesco a gestire bene il rapporto con la mia immagine: ho già perso in partenza e quindi mi posso permettere di fare ciò che voglio, senza paura e con sincerità. Sembra un discorso triste, forse lo è. Ma ti giuro che ogni volta che faccio un post disattendo tutte le regole del buon social media management, e lo faccio con enorme piacere e grande entusiasmo. Mi diverto!
APICE, siamo arrivati ai saluti, ma il finale spetta a te. Saluta i nostri lettori con una citazione o, se preferisci, con una frase tratta dalle tue canzoni! Ti ringrazio per essere stato con noi e a presto!!!
Ciao Giulia e grazie a te, e a chiunque abbia sopportato fin qui i miei sproloqui. Dispiace arrivare in fondo ad interviste con domande interessanti come queste; ma, da buon deandreaiano, sono convinto che «è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati». A presto e grazie ancora!