La politica americana nell’era di Trump si è fatta talmente tossica e controversa, nonché evidentemente dannosa per molti, che è facile dimenticare i decenni di lavoro necessari per arrivare a far sì che qualcuno come Donald sia l’attuale presidente. Adam McKay, con “Vice – L’uomo nell’ombra”, punta proprio a rispolverare gli antecedenti del presente. Percepito l’ambiguo e convenevole cerchiobottismo di George W. Bush, il regista accende la cinepresa e avvia il discorso del film per ricordarci che Trump sta semplicemente praticando il gioco inventato vent’anni fa da un ex vicepresidente repubblicano. Il film segue liberamente la vita di Dick Cheney (Christian Bale) partendo dalla giovinezza trascorsa nel Montana sempre attaccato a una bottiglia. E poi avanza, proseguendo dall’arrivo alla Casa Bianca di Nixon e Ford al seguito del segretario alla difesa Donald Rumsfeld (Steve Carell), fino a percorrere tutto il suo mandato come uomo in seconda di George W. (Sam Rockwell).
Dalle conseguenze del Watergate e dell’11/9, Cheney si è impegnato in una sola cosa: accumulare potere con ogni mezzo necessario. C’è un unico problema: è un uomo noioso, taciturno, votato al pratico e senza una personalità di spicco. «Quali sono i nostri principi?», chiede sinceramente a Rumsfeld all’inizio del suo incarico come stagista. L’unica risposta di Rumsfeld è ridere irrefrenabilmente mentre si allontana. Una risoluzione romanzata che ci dà il primo indicatore dell’ottica di “Vice – L’uomo nell’ombra” sulla bramosia dei politici conservatori. Tuttavia, l’ispirazione per Cheney arriva con la scoperta di una rigorosa filosofia conservatrice chiamata Teoria esecutiva unitaria: nessuna azione è mai illegale se è il presidente a farla. Dick non è abbastanza charmant da essere presidente, quindi dovrà arrivare al potere per vie indirette: attaccare il proprio carro a un cavallo carismatico. Accordarsi a uno scalatore esperto che gli tracci il sentiero. Diventare il burattinaio di una marionetta presidenziale.
Molte delle sbavature stilistiche di “Vice – L’uomo nell’ombra” sono comunque convincenti.
“Vice – L’uomo nell’ombra” è un esempio di film-saggio. È un lavoro che non si limita a informare, ma che vuole soprattutto indignare. Come nel precedente film, Adam McKay adotta un approccio urgente e documentaristico nelle singole scene. Ognuna è Intervallata da spunti sfrenati e illustrazioni metaforiche dei momenti di influenza (o interferenza?) del protagonista sulla politica americana e non solo. Frequenti scorci di Cheney a pesca dipingono la sua etica. L’uomo è un’esca-interruttore: qualcuno che attira una preda ignara con la promessa di qualcosa. Ma in realtà vuole dell’altro. Ma cosa motiva davvero Cheney? Il regista vorrebbe farci pensare al tentativo di tener fede alla promessa fatta alla fedele moglie Lynne (Amy Adams) di non diventare un «grasso ubriacone» e fare qualcosa di se stesso. Ma la regia è troppo focalizzata sul fascino del cinico gotcha protagonista per approfondire il perché del cercare il potere in questo modo.
Quella domanda sui principi fatta a Rumsfeld evoca un uomo ideologicamente vuoto, che cerca il potere per il suo stesso interesse, attratto dal fascino dell’autorità e dalla superiorità alfa. Come il film ci avverte, quella che vediamo è la storia (presumibilmente) vera, e raccontata nel migliore dei modi, dell’uomo più riservato della politica americana. Ma, nonostante Adam McKay abbia ammesso di «aver fatto del suo fottuto meglio», quello che vediamo non è un esempio di cinema perfettamente riuscito. Le sue tattiche di saggistica cinematografica hanno funzionato meglio ne “La grande scommessa”, quando servivano a rivelare le complessità del mercato azionario e dell’economia del dollaro. In questo caso, il suo pubblico potenziale sa già che Dick Cheney è l’uomo deprecabile che ha gettato le basi per l’attuale secret service americano. Il regista infonde tanto nichilismo politico che, se pure attendibile, rende la visione deprimente e irregolare.
Adam McKay è sì capace di umanizzare Cheney, ma non ci fa mai dimenticare la sua terrificante figura politica.
Eppure, molte delle sbavature stilistiche di “Vice – L’uomo nell’ombra” sono ancora convincenti. Una sapiente costruzione del quadro, incorniciato dalla sinistra soundtrack di Nicholas Britell, restituisce l’oscurità interna alle sale del potere U.S. Il film oscilla tra i toni dichiarati di un political drama – intriganti da una voce di commento che rimane ignota fino alla fine – e le sospensioni comedy che aprono a qualche riuscita gag. Adam McKay è sì capace di umanizzare Cheney, ma non ci fa mai dimenticare la sua terrificante figura politica. Il regista avverte di temere l’uomo silenzioso, perché non sappiamo quando colpirà. Così, aiutato da Christian Bale, ci regala una versione camaleontica di Dick Cheney, sempre pronto a cambi dissoluti per adattarsi alla nuova situazione. Tra il guadagno di peso e le protesi, l’interprete principale – sicuro protagonista della prossima Award Season – crea un avatar troppo conturbante per uno dei più grandi villain della storia americana.
Adam McKay conserva una facciata rispettosa verso quest’uomo sempre dieci passi avanti. Sebbene utilizzasse la propria eminenza solo per sé e la famiglia, incurante di quante persone occorresse calpestare. Il film traduce l’immagine di un uomo impenitente spinto dalla moglie verso il massimo potere, rivelandone anche il costo personale e sociale. La sceneggiatura autoindulgente è poco appassionata per compensare l’estetica granulosa e il documentaristico montaggio a schiaffo. Altresì, questi vengono così esasperati da tradire anche la struttura del classico biopic. Il bene è inutile, il male viene ricompensato. E non c’è modo per sottrarci all’infernale divisione politica. Tutto ciò suona nobile, ma una piccola scena post-credits conserva disprezzo anche per il pubblico. Dalla quarta parete arriva una scazzottata tra un conservatore arrabbiato e un compiaciuto liberale per la faziosità del film. Intanto, una ragazza si rivolge alla amica e dice di non vede l’ora che esca il prossimo “Fast and Furious”.