Come si può ricordare oggi una figura come quella di Michael Jackson senza parlare di quegli scandali che hanno disseminato la sua carriera? Ci arrendiamo da subito. Dopotutto è una battaglia persa ancora prima della partenza. Una carriera artistica la sua, che lo ha visto praticamente nascere sotto i riflettori, se solo consideriamo che quarantacinque dei suoi cinquant’anni vissuti sono stati dedicati in maniera indefessa alla musica. Nessuno ha mai raggiunto i suoi numeri. Probabilmente nessuno lo farà mai. Fin quando entrò nella band dei fratelli alla sola età di cinque anni, dopo che il padre, tanto carismatico quanto terribile e temibile, si accorse del suo talento. Tanto che, dopo i primi successi proveniente dal contratto con la Motow Records nel 1969, Michael Jackson non ancora adolescente, iniziò la sua carriera da solista.
L’incontro con Quincy Jones e “Off The Wall” arriveranno dieci anni più tardi. Incontro che di fatto segna la fine dei The Jackson Five. Troppo grande il divario tra Michael Jackson e i fratelli. Quando poi nel 1982 uscì “Thriller” era chiaro a tutti che non sarebbe più stato solo uno dei dieci figli di Joseph Jackson. Il mix di soul, rock e disco che aveva contraddistinto il primo album solista, in “Thriller” divenne un esplosione di energia impossibile da fermare. Il primo afroamericano a scalare le classifiche con il disco più venduto della storia. Distruggendo le prime barriere razziali, si accingeva poco più tardi a scrivere nuovamente la storia. Nel ’83 veniva distribuito il videoclip della title track, diretto da John Landis e in grado di costringere MTV a modificare il suo palinsesto, tanto erano alte le richieste di trasmetterlo.
Michael Jackson fu Il primo afroamericano a scalare le classifiche con il disco più venduto della storia, distruggendo le prime barriere razziali.
“Thriller”, il primo videoclip arricchito di diegesi e coreografia, fortemente voluto da Michael Jackson mentre la Epic Records avrebbe preferito non investire ulteriori fondi, divenne l’inizio di un mito e la consacrazione di una star già idolo dalla nascita. Solo l’inizio di una serie di videoclip che fecero storia e soprattutto fecero scuola. Un’ascesa che non vedeva arresto. Soprattutto quando, durante l’esibizione per i venticinque anni della Motow Records, i fratelli Jackson lasciavano il palco al fratello minore. Sulle note di “Billie Jean”, Micheal Jackson presentò al mondo il famoso passo del moonwalker, suscitando uno stupore e un’eccitazione in teatro come non si vedeva dai tempi di Elvis Presley. La danza, insieme alla voce sorprendente, è l’altro marchio della sua musica e simbolo di un’icona indiscussa.
Il resto dopotutto, è una storia che conosciamo tutti. Nel corso della sua discografia, Michael Jackson divenne l’artista più premiato e più venduto della storia. La sua musica e la sua arte divennero ispirazione per tutti quegli artisti che oggi scalano le classifiche ed è per questo che è ancora l’indiscusso “Re del Pop”. Eppure, proprio oggi che ricorre il decennale della sua morte –improvvisa e sospetta, tanto che il Dott. Conrad Murray è stato condannato per omicidio colposo per aver indotto l’infarto al cantante dopo la somministrazione in dosi massicce di propofol – è difficile parlare di Michael Jackson. Ed è difficile soprattutto a distanza di pochi mesi della messa in onda del documentario “Leaving Neverland” da parte della HBO. Documentario che ha scosso profondamente l’opinione pubblica dividendola nuovamente in due fazioni.
Thriller”, il primo videoclip arricchito di diegesi e coreografia divenne l’inizio di un mito e la consacrazione di una star già idolo dalla nascita.
Perché, quel beneficio del dubbio che la morte aveva regalato a Jacko – ma neanche troppo – venne spazzato via, quando lo scandalo degli abusi sessuali venne nuovamente a galla. Molte emittenti radio smisero di trasmettere le sue canzoni, i produttori della serie de “I Simpsons” cancellarono la puntata in cui Michael prestava la voce a un personaggio, Louis Vuitton ritirò la linea di abbigliamento a lui dedicata, e addirittura alcune delle case benefiche a cui Jackson era andato in favore, rinunciarono ai suoi averi. Eppure nel 2005, alla fine del processo durato due anni, fu assolto con ogni ragionevole dubbio dai sette capi d’accusa che avevano ormai irrimediabilmente rovinato la sua immagine pubblica. Merito di prove raccolte da FBI e testimonianze in favore dell’artista, tra cui quelle di Wade Robson e James Safechuck che oggi invece arrivano ad accusarlo.
Approcciarsi a una figura come questa è un’impresa ardua, e forse in questo caso è impossibile dividere l’artista dall’uomo, come Margo Jefferson ha provato a fare nel suo “Su Micheal Jackson”. Scritto prima della morte del re del pop. Lei che è un premio pulitzer, ha sentito la necessità di aggiungere delle note alla prefazione proprio dopo la visione di quel documentario. E come si fa allora, a credere ancora all’innocenza che la legge gli ha riservato? Come possiamo accettare la sua musica ascoltando le testimonianze così crude e reali delle due vittime? Come possiamo giustificare una presenza così presente nella vita di un bambino e della sua famiglia? In quest’epoca in cui i processi mediatici sono i veri detentori della legge, prendere coscienza della propria capacità di critica, potrebbe essere un gesto davvero rivoluzionario.
In quest’epoca in cui i processi mediatici sono i veri detentori della legge, prendere coscienza della propria capacità di critica, potrebbe essere un gesto davvero rivoluzionario.
Non faremo oggi la parte del Marco Antonio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare, cercando di portarvi dalla nostra parte e convincervi di qualcosa. La nostra captatio benevolentiae non arriva a scalfire l’aura mostruosa e insieme affascinante che un personaggio di questo calibro ha costruito in quarantacinque anni di carriera. Le luci e le ombre sulla sua persona, eccentrica senza dubbio. Una persona strappata da una vita normale e da un’infanzia sempre ricercata nel suo ranch di Neverland. Nelle amicizie con i più piccoli. Insomma, non sarebbero un alibi, né possono essere chiarite. Non ora che l’accusato non è presente, e non ora che le prove a supporto delle testimonianze di Robson e Safechuck sono in effetti non pervenute. Né servirà a molti sapere che alle due presunte vittime è stata rifiutata dai giudici la richiesta postuma di oltre un miliardo di dollari di risarcimento a carico degli eredi.
Dopotutto “Leaving Neverland” non si può definire un’inchiesta, non ammette repliche o altre tesi. Il compito però di restare nella mente lo ha portato a termine. E il pubblico continua a ruminare un personaggio che ormai, nella sua impossibilità di essere definito – bianco o nero, maschio o femmina, colpevole o innocente – appartiene alla sfera del mito. Non resta in realtà che fare fede al proprio intelletto, alla propria morale, alle proprie emozioni e farci i conti. Noi oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, ammettiamo di non poter fare quella distinzione tra uomo e artista, e accettiamo non avere risposte certe da dare. Accettiamo che nella fiaba a tinte fosche della vita di Michael Jackson l’orco deve essere stato senz’altro più di uno. Accettiamo la sua musica, i piedi svelti e quell’estensione vocale di tre ottave e mezzo.