Sfatiamo un mito: non crediate che quello che leggete dalle penne dei critici si fondi sulla visione del film, anche di quelli più accreditati. Quest’anno a Venezia sono tantissimi, troppi, e non capiamo ancora perché, vista la crisi nera dell’editoria su carta stampata. Dovete sapere che molti recensori e giornalisti scriveranno il loro articoletto e spesso decreteranno il successo di quel film o di quell’altro senza neppure averlo visto. C’è chi esce dalla sala dopo mezzora armato di penna, taccuino e presunzione di aver capito tutto, e c’è pure chi si siede in poltrona a un’ora dai titoli di testa.
Mi è capitato stamattina di assistere a una scena di questo tipo durante la proiezione di “Fréres Ennemis”, regia di David Oelhoffen selezionata in Concorso. Mi viene chiesto sottovoce che cosa fosse successo fino a quel momento. Erano passati sullo schermo 50 minuti di pellicola ma qualcosa ancora non era ben chiaro. Quando poi il film è finito mi sono accorto che quello che c’era da sapere era ben poco, continuava a rimanere dubbio, e che soprattutto il tizio ritardatario non si era perso granché.
Il lato umano era l’unico lato interessante – minimamente, non ci illudiamo – di questa storia vista e rivista. Ma il regista David Oelhoffen pare non essersene accorto in tempo.
Manuel (Matthias Schoenaerts) e Driss (Reda Kateb) sono cresciuti come fratelli in una dura periferia parigina preda del narcotraffico. Da adulti, il primo rimane nella vita criminale, il secondo se ne allontana di ribalto e diventa comandante della narcotici. Separati dal muro della legalità i due non hanno più contatti, fino a quando il più grande affare di Manuel va storto e sono costretti a rincontrarsi, a proteggersi a vicenda fin dove si può, e forse anche oltre.
Le fotografie finali del film sembrano suggerire proprio quello che per due ore è mancato. Immagini in bianco e nero dei due interpreti/personaggi ritratti sul set, fianco a fianco, sono accomunate da una sintonia di formazione. Purtroppo tutto questo lo si sarebbe dovuto vedere prima. David Oelhoffen preferisce invece centellinare il calore umano già esiguo, perdendosi troppo in arresti, retate e faide narcos. Magari qualche minuto in più al rapporto tra Manuel, l’ex compagno e il figlio l’avremmo gradito. Soffermarci qualche scena in più nella casa in cui Driss va a fare visita ai genitori maghrebini ci sarebbe piaciuto. Sarebbe: presente condizionale. Perciò sarebbe stato un altro film.
Non mi viene da immaginare un altro modo in cui “Fréres Ennemis” avrebbe potuto essere girato. Forse perché non mi viene neppure voglia di continuare a pensare a questo film.
Il lato umano era l’unico lato interessante – minimamente, non ci illudiamo – di questa storia vista e rivista. Ma il regista pare non essersene accorto in tempo se non sui titoli di coda, incentrando il proprio discorso su risvolti soliti che tirano in ballo la redenzione, la colpa e la solidarietà di sangue. Neppure la regia dà segni di originalità. “Fréres ennemis” confida nella tipica impronta francese contemporanea, quella messa su con la macchina a mano, oscillazioni e stacchi di ricontestualizzazione in campo lungo. Realtà ripresa senza troppo darsi, il che è spesso la chiave vincente. Ma non in questo caso. Di contro non mi viene da immaginare un altro modo in cui il film avrebbe potuto essere girato. Forse perché non mi viene neppure voglia di continuare a pensare a questo film. Non pervenuto: presente indicativo.