Il rock sta diventando sempre più merce rara. È un genere che inizia ad avere la sua età, e il pubblico ha un atteggiamento diffidente verso chitarre pesanti e affini. Però i Thing Mote gettano il cuore oltre l’ostacolo e ci provano, così il 5 giugno pubblicano il loro album d’esordio: “Robokiller”.
Nati e cresciuti artisticamente a Verona nel 2006, hanno sfornato una serie di EP – i loro banchi di prova – per approdare quattordici anni dopo a “Robokiller”. Propongono, in questa nuova produzione, un sound heavy, delle sezioni vocali articolate con cui decidono di trattare dei temi distopici in lingua inglese. Indubbiamente il materiale di partenza è molto interessante, però ci sono delle sbavature su cui è doveroso riflettere.
Il fatto che la storia personale dei Thing Mote sia composta perlopiù da EP emerge in maniera forte dopo le prime tracce. Non è un fatto negativo in sé, ma di certo influisce sull’identità di “Robotkiller” che in alcuni passaggi risulta quasi “addensato”. Spiego meglio cosa intendo. Abituarsi alla composizione di EP ha forse lasciato una traccia nel modus creandi del gruppo che mette tantissima carne al fuoco e rende meno digeribili i dieci brani dell’album.
L’impressione è che i Thing Mote, con “Robotkiller”, abbiano sentito di dover dire tutto e subito
Infatti spesso le chitarre indugiano in passaggi strutturati, corposi e anche ispirati, e altrettanto fanno le voci (a cui è stata dedicata evidentemente parecchia attenzione) risultando però troppo carichi e “fitti”. Il rischio maggiore è di perdere l’attenzione dell’ascoltatore. Nel dipanare la matassa armonica, l’impressione è che i Thing Mote abbiano sentito la necessità, tipica dell’EP, di dover dire tutto e subito, senza rispettare quella che è la lunga distanza dell’album. Sono passati da centometristi a maratoneti, e lo stacco si sente.
La dose di tecnica che offrono i Thing Mote è indiscutibile, va solo gestita meglio. Il consiglio non è quello di “allungare il brodo” ma solo di snellire l’impasto sonoro per aiutare l’orecchio ad accogliere e comprendere tutte le architetture che hanno inventato i ragazzi di Verona. Perché se c’è una cosa che a “Robotkiller” non manca è proprio la capacità di esprimere il background del gruppo. Si sentono bene le influenze del metal, le dissonanze vagamente grunge e la venerazione in generale per la musica scritta alla vecchia maniera. Bisognerebbe solo lasciarla respirare un po’ di più.