Alle orecchie dei più giovani, il nome Mark Hollis dirà poco. Eppure la musica pop odierna deve tanto ai Talk Talk e al suo leader. La notizia della sua morte ha fermato il mondo dello spettacolo, in particolare quello più legato alle atmosfere anni ‘80 e ai sintetizzatori. A confermare il tragico evento è stato proprio Paul Webb, bassista della band inglese: «Era un genio. È stato un onore far parte di una band con lui».
I Talk Talk si sono distinti nel decennio dei capelli cotonati per un sound pop perfettamente incastonato ai canoni dei generi via via sperimentati, ammantato però di un’aura elegante e raffinata. In 10 anni di carriera e 5 album hanno prodotto brani synth-pop, jazz, ambient. Filo rosso di tutta la produzione, proprio la voce di Mark Hollis, dal timbro scuro e avvolgente.
Debuttarono cavalcando l’onda della new wave con l’album “The Party’s Over” (1982), prodotto da Colin Thurston, che aveva già collaborato con i Duran Duran, The Human League e David Bowie. La grande popolarità arrivò però con il secondo lavoro, “It’s My Life” (1984), trascinato da una title track che divenne presto un inno alla libertà. La canzone è tornata in voga vent’anni dopo, nel 2003, grazie alla cover dei No Doubt, con Gwen Stefani nei panni di una vedova nera condannata.
Filo rosso di tutta la produzione dei Talk Talk fu proprio la voce di Mark Hollis, dal timbro scuro e avvolgente.
Godettero di un discreto successo anche “Such A Shame”, “Renee” e “Dum Dum Girl”. Due anni dopo, “The Colour Of Spring” decretò il loro record di vendite, grazie al singolo “Life’s What You Make It”. Da lì, iniziò la fase sperimentale dei Talk Talk, fra progressive e jazz, con tracce sempre più lunghe e meno adatte al pubblico mainstream. Nonostante i numeri bassi, “Spirit Of Eden” (1988) e “The Laughing Stock” (1991) aprirono la strada al post rock degli anni successivi. Il cantante ci ha lasciato in eredità un solo album solista, l’omonimo “Mark Hollis” (1998). Una discografia di soli 6 dischi, insomma, tutti da (ri)scoprire.