Quello di Christian Petzold è un cinema che si è imposto per la sua capacità di raccontare storie femminili in cui l’ambientazione gioca un ruolo fondamentale. Ci piace ricordare il regista tedesco soprattutto per i finali, considerati spesso la parte migliore dei suoi lavori. Film come “La scelta di Barbara” (2012) e “Il segreto del suo volto” (2014) sembrano ritornare al punto di partenza a pochi minuti dalla fine. Una sensazione dovuta al modo in cui il regista lascia che gli aspetti temporali e spaziali della trama svaniscano per un momento, restringendo lo sguardo sulle verità umane, universali e senza tempo dei personaggi. I fantasmi simbolici, gli spazi liminali e le identità fluide sono i motivi ricorrenti nell’opera del regista. E ne “La donna dello scrittore”, presentato lo scorso febbraio alla Berlinale, questi motivi sono riuniti in una meditazione potente sui ripetuti fallimenti morali che l’umanità continua a produrre.
Quello di Christian Petzold è un cinema che si è imposto per la sua capacità di raccontare storie femminili in cui l’ambientazione gioca un ruolo fondamentale.
Quando le truppe tedesche giungono alle porte di Parigi, Georg (Franz Rogowski) fugge a Marsiglia. L’uomo ha con sé delle carte consegnategli da uno scrittore comunista di nome Weidel, suicidatosi per non essere deportato. Questi documenti includono il passaporto, il manoscritto incompiuto di un libro, due lettere indirizzate a sua moglie e il visto che l’ambasciata messicana gli aveva concesso per rifugiarsi nel paese. Georg assume l’identità di Weidel nel tentativo di fuggire dall’Europa in guerra, ma non sarà facile. In un crescente senso di disperazione, l’uomo rimane intrappolato a Marsiglia. Qui, giorno dopo giorno, continua a imbattersi nelle stesse persone che come lui stanno cercando di mettersi in salvo. Tra queste c’è Marie (Paula Beer), la moglie dello scrittore che, ignara del suo suicidio, continua a cercarlo. Georg, innamoratosi di lei, vuole convincerla a fuggire con lui in Messico, ma non riesce a dirle la verità sul marito.
Il film è un adattamento dell’omonimo romanzo di Anna Segher sulla Seconda Guerra Mondiale. Ma, pur mantenendosi fedele al libro nella trama e nei dialoghi, il regista li rimuove dal contesto storico originale per innestarli in uno moderno. All’inizio, l’autenticità della ricostruzione e la credibilità della situazione ci convincono che stiamo assistendo a un dramma ambientato in pieno conflitto. A un certo punto però, la certezza cronospaziale comincia a vacillare, conducendo la narrazione e gli spettatori in una terra di nessuno, avulsa da tempi e luoghi identificabili. Qualcosa comincia a disattendere la logica. Georg dice di dover sfuggire ai nazisti, ma indossa jeans e una giacca sportiva moderna. Al contrario, i documenti che ha con sé sono scritti a macchina con una grafica vecchio stile. La trama del passato comincia a fondersi con i temi del presente, e così anche gli oggetti di scena.
Ne “La donna dello scrittore”, Christian Petzold, pur rimanendo fedele al libro nella trama e nei dialoghi, li rimuove dal contesto storico originale per innestarli in uno moderno.
Solo alcuni di essi rimandano all’epoca di Hitler: il carattere Sütterlin, una siringa di morfina in vetro, una vecchia valigia. Per il resto, tutto è affidato al dialogo. Christian Petzold non si limita ad avvicinare le epoche (1940 e 2017) per inseguire un’originalità strutturale comunque riuscita. Il suo spazio-tempo indefinito funziona perché serve una logica interna. Le tecnologie moderne, i dispositivi digitali e le automobili del XXI secolo sono dappertutto. Infatti, vediamo che gli edifici e gli abiti sono contemporanei, ma il trasporto è limitato a treni e navi. Non ci sono telefoni cellulari e sono necessari visti di transito per spostarsi da un paese all’altro. Solo apparentemente il film sta raccontando una storia di guerra e neppure si limita a un esercizio di scrittura distopica. Il regista ha unito le due temporalità e ha permesso loro di coesistere, avanzando un discorso incisivo sui corsi e ricorsi della Storia.
Come una favola del passato che raccontata nel presente può dirci molto sul futuro, “La donna dello scrittore” avverte che gli errori possono essere ricommessi più facilmente proprio quando crediamo che questo sia impossibile. Ogni epoca, inclusa quella attuale, ci lancia dei segnali di avvertimento. Dall’ascesa di idee estremiste alle crisi migratorie, il presente ci invita a non sbagliare di nuovo. Eppure, stiamo rifacendo proprio quegli stessi errori. La grafia e gli abiti possono essere cambiati negli ultimi settant’anni, ma la lezione non l’abbiamo imparata affatto. Indubbiamente, la storia raccontata parla di rifugiati che lottano per scappare da paesi devastati dalla guerra. Una sinossi che spesso possiamo recuperare dalla cronaca odierna con molta facilità. Sebbene il film sia privo di un riferimento politico palese, il confronto tra il mondo dittatoriale degli anni ’30 e ’40 e il sentimento anti-immigrazione di oggi con la conseguente ascesa dei neonazisti è doveroso.
Come una favola del passato che raccontata nel presente può dirci molto sul futuro, “La donna dello scrittore” avverte che gli errori possono essere ricommessi.
Col titolo originale del film, Christian Petzold invita a considerare cosa implica la nozione di transito. L’idea del passaggio o del trasporto delle merci che si fa più umanamente rilevante se sostituita dalla parola migrante. Un termine che vive nella nostra quotidianità. Una sostituzione verbale, un sinonimo, forse azzardato ma per nulla scontato, che restituisce perfettamente la profonda instabilità del nostro tempo. Allo stesso modo, solo apparentemente i personaggi sono inadeguati al loro tempo, che poi sarebbe il nostro. Passano da una stanza d’albergo all’altra, da un consolato all’altro, in attesa di lasciare il territorio prima dell’invasione e della conseguente persecuzione. Si muovono rimanendo immobili e viceversa. Questa staticità paradossale è sottolineata dalle panoramiche che accompagnano Georg nei diversi punti di incontro della città, trasformati in un’enorme stazione a cielo aperto. Come le merci in transito, già in movimento ma ancora ferme, la mente vaga ma il corpo resta immobile.
Un altro paradosso insito nell’essere in transito è evocato dai rapporti che Gerog mantiene con gli altri rifugiati. Il tempo di attesa che precede la partenza li porta a conoscersi e a confrontarsi, recuperando così una sorta di umanità. Tuttavia, il loro status di individui costantemente in transito, fermi in un luogo che non è né quello di provenienza né quello d’arrivo, li trattiene dall’affezionarsi all’altro. Sono costretti a evitare forme di empatia che potrebbero compromettere la loro sopravvivenza. Ognuno è costretto a pensare a sé, accomunati dalla stessa condizione sospesa ma necessariamente isolati. La loro solitudine scorre nelle inquadrature, in particolare nelle immagini di uno dei tanti arresti. Una donna e suo figlio vengono catturati, ma il rastrellamento non può che avvenire sotto lo sguardo impotente degli altri, costretti a rimanere nascosti, ciascuno nella propria stanza.
I personaggi de “La donna dello scrittore” si muovono rimanendo immobili. Questa staticità paradossale è sottolineata dalle panoramiche che accompagnano Georg per la città.
La maggior parte dei dialoghi avviene nella dialettica campo/controcampo, e sono pochissime le inquadrature in cui due personaggi vengono mostrati insieme. Il formato anamorfico sarebbe sufficientemente ampio da includere tutti coloro che in quel momento stanno parlando. Ciononostante, gran parte del quadro resta spoglio, esaltando l’enorme vuoto che circonda Georg. Nei pochi momenti in cui i personaggi condividono lo schermo è l’arredamento a separarli: i vetri di una pizzeria, gli uffici del consolato, i banconi, le finestre. Tutti elementi che sottolineano il confine invalicabile tra gli esseri umani in quella situazione. I personaggi sono come un binario del treno: linee parallele che vanno nella stessa direzione ma non si toccano né si intersecano mai. Condividere lo stesso spazio, venire dallo stesso paese, andare nella stessa direzione non genera necessariamente solidarietà o legami. Ognuno combatte per la propria sopravvivenza e deve poter lasciare quel posto di passaggio senza attaccamenti o rimpianti.
Infine, la scelta di trasporre la vicenda a un periodo contemporaneo diventa una metafora trans-storica dello stato fisico e soprattutto psicologico dell’essere in transito. Uno stato che dà alla persona che ne fa esperienza l’opportunità di abitare tutti gli spazi contemporaneamente: ovunque si trovi, non è né a casa né altrove. Ma l’individuo in transito sperimenta la dolorosa esperienza di dover aspettare a lungo in un luogo limbico. Uno spazio solo apparentemente aperto e in cui è vietato mettere radici. Dove qualsiasi forma di coesione sociale è impossibile perché condizionata dalla temporaneità, dalla consapevolezza che non sarà eterna. Nel discorso di Christian Petzold il transito è l’assenza di un’appartenenza e, come cantano i Talking Heads sui titoli di coda, il trovarsi “sulla strada verso il nulla”. La natura terribile di questa condizione verrà esplicitata da Georg con una frase di Weidel su cosa sia l’inferno: una lunga attesa!