Per convincere il mio spirito che sì, era pronto a prestarsi alle dita per scrivere questo pezzo, ho dovuto ricorrere a un vecchio trucco: cercarmi un titolo, una parola chiave attorno cui individuare e fissare le diverse suggestioni che, brano dopo brano, mi sono arrivate dal disco degli I Hate my Village. Uscito per il mondo il 18 gennaio con La Tempesta, “I Hate My Village” è azione, marea. È movimento. Questo, il mio titolo da mettere in mezzo. Un movimento che è azione musicale, ma è anche intenzione, istinto e intuizione. E tutto questo si sente.
Del resto, le nove tracce di “I Hate My Village” sorgono dal felice incontro artistico e umano tra la corde di Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion – qui l’intervista) e le bacchette di Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours – qui l’intervista). Entrambi sono curiosi sperimentatori e attenti ricettori del suono. In questo caso, un suono vicino che viene da lontano. Lontanissimo, si direbbe, se per lontano s’intendesse una distanza promossa da una non esperienza. Questa è invece una distanza beata che diventa vera e sondabile proprio perché sorge da uno scambio, una riflessione che si fa traduzione.
“I Hate My Village” è azione, marea. È movimento.
Ebbene, i suoni della musica africana che hanno dato il la per la creazione di questa che Fabio Rondanini ha definito nuova lingua arrivano caldi, carichi e danzanti come una creatura primordiale. Attuale, però. Tanto da trovare nel ritmo la capacità di ballare tra palazzine e liane, tra balafon e bleep drum.
Distribuito in vinile e su tiratura limitata, “I Hate My Village” è certamente un disco da non perdere. Già da “Tony Hawk of Ghana” e “Acquaragia”, i singoli che hanno anticipato la release, si era captato un certo atavismo pulsante. Una certa ariosità, vicina molto a quella che si può respirare nelle stanze ricreative, dove la curiosità e la condivisione diventano ragione di sperimentazione.
Il risultato è un viaggio itinerante, profumato, elettrico e vibrante. L’immaginario è quello di un’architettura volumetrica senza porte. Nove camere, il cui accesso lo danno finestre che restano aperte. Per questo, molto si deve al raffinato lavoro di produzione di Marco Fasolo, musicista padovano (Jennifer Gentle). Un ingegnere del suono «che parla con le macchine», come ci ha detto Adriano Viterbini in una recente intervista.
Valore aggiunto è la voce di Alberto Ferrari (Verdena).
Distribuito in vinile e su tiratura limitata, “I Hate My Village” è certamente un disco da non perdere.
Inseritasi in quello che può dirsi il secondo tempo di lavorazione del disco, la sua non è una voce che dice qualcosa, ma che piuttosto la fa. Raccoglie lo spazio/scarto che esiste tra il mispelling di hate ed ate: quello della differenza, inevitabile, che emerge quando si traduce un linguaggio interiorizzato e restituito secondo l’autenticità della propria ispirazione. Questo per dire che se tutti gli strumenti impiegati da Adriano Viterbini e Fabio Rondanini – ovvero chitarra, mandolino, ukulele, basso, piano e tastiere – tessono la trama di un disco dinamico, fresco e calibrato in potenza, la voce di Alberto Ferrari si intreccia perfetta come strumento che di quel movimento restituisce l’ambiente, l’aria in cui s’è compiuto. Ed è straordinaria. In “Tony Hawk of Ghana” arriva felpata, mossa da una carica sotterranea ed elegante.
“Presentiment”, la prima delle cinque strumentali, sembra accompagnare un rituale. È ipnotica e tribale. Accende il motore che “Acquaragia” colora ad acquerelli e “Location 8” trasporta, per una manciata di secondi, nell’antichità di un luogo dove si immaginano wiskey on the rocks, palle da biliardo, sigarette e un jukebox. Con “Trump”, si innesca un moto sinuoso e sinistro. Esplorazione elettrica e fiammante, prepara a “Fare un Fuoco”. Pezzo questo visionario. È un maremoto che solletica e fa venire voglia di ballare anche alla lingua. Da dietro i denti lo fa, e canta il la la la che amalgama la voce al ritmo effervescente.
Sono curiosa di capire verso quali mete vorrà giungere il mio corpo, ora che “I Hate My Village” vi s’è insinuato.
“Fame”, a seguire, rallenta. La chitarra di Adriano Viterbini, è familiare, suadente, come la voce di Alberto Ferrari. Stende il tappeto a quello che è forse il pezzo più terreno del disco. Intendendo con ciò un richiamo a fonti blues, contaminate e squisitamente sexy. “Bahum” è invece una coccola celeste fresca di rugiada. È un’aurora che vuole una giornata d’amore. Ultima, “I ate my village”. Pezzo in cui il tribalismo è messo a servizio del corpo e della mente. Come fosse scomponibile, pare cominci in media res. In fondo, l’esperienza è tradotta, compiuta, divorata.
In perfetta armonia col sound del disco, l’artwork dell’artista romano Alessandro Maida, conosciuto come Scarful, grande tatuatore. Anche lì, lo spazio per ciascuna delle immagini non è separazione. Come nel disco e come già detto, c’è un confine immaginario che è cum-finis: ciò che mi separa e nel contempo, ciò che mi unisce, che ho in comune con l’altro. Qualunque cosa l’altro, o l’oltre, sia o significhi.
Per tutto questo e per la godibilità del disco, si attende affamati l’esibizione live. In questa fase, sarà lo stesso Marco Fasolo ad accompagnare il gruppo per suonare il basso e farci così trovare di fronte a questo gruppo esordiente di grandi nomi della musica un esordio che conserva la purezza, la sorpresa e il divertissement. Da parte mia, sono curiosa di capire verso quali mete vorrà giungere il mio corpo, ora che “I Hate My Village” vi s’è insinuato e messo in circolazione! E francamente, non vedo l’ora di scoprirlo!
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I HATE MY VILLAGE
I HATE MY VILLAGE
18 gennaio 2019
La Tempesta
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