Chi avrebbe immaginato che un regista come Fatih Akin sarebbe stato paragonato un giorno e negli stessi rivoli di quotidiano a Lars von Trier? Quel giorno è oggi, precisamente nel corso della Berlinale 69. Il paragone salta fuori dalla mente di quel giornalista che si pone sulla difensiva e urla: «E voi che avete tanto osato criticare Lars per “La casa che Jack costruì”, ora che mi dite di questo?». Questo risponde al titolo “The Golden Glove” (or. Der Goldene Handschuh), il film che il regista turco-tedesco ha presentato in Concorso. Il paragone sopracitato appare superficiale, perché nel caso del danese ci troviamo davanti all’ennesima dimostrazione che Lars von Trier necessita disperatamente di Xanax e invece si ostina a tentare l’omeopatia facendo film (brutti). Ci troviamo davanti all’osceno in scena, a ciò che dovrebbe stare fuori dallo sguardo ma che si presenta a noi in tutta la sua spietata realtà.
Hamburgo, 1970. St. Paul è un quartiere di divertimenti notturni e figure buie: bevitori abituali e prostitute, giocatori d’azzardo e altre anime solitarie. Fritz Honka (Jonas Dassler), piccolo uomo con occhiali di corno spessi e una faccia deforme, è una di loro. Privo di un vero lavoro ed estraneo al minimo fascino, Fritz deve accontentarsi di rimorchiare anziane donne sole, per lo più sfatte e in sovrappeso, prede irrecuperabili dell’alcol, in un locale chiamato “Zum Goldenen Handtuch”. Nessuno sa che quell’uomo violenta e massacra quelle donne nella sua mansarda, le fa a pezzi e ne stipa i resti in malo modo all’interno di piccoli ripostigli nei muri e dell’odore nauseabondo accusa la famiglia greca del piano di sotto. Basato sul caso del serial killer Fritz Honka e sul romanzo del 2016 di Heinz Strunk, il film ripercorre la vicenda dal primo omicidio nel 1970 fino all’arresto casuale avvenuto nel 1975.
“The Golden Glove” è inaspettato, eccessivo e incapace di controllarsi.
Sin dalla prima scena Fatih Akin ti fa capire il tipo di menù che vuole servirti: camera fissa su una donna grassa distesa su un letto; un uomo cerca di farla entrare all’interno di un piccolo sacco. Non riuscendoci, porta il corpo in salotto, copre il pavimento con una plastica e comincia a sezionarlo dopo aver finito una bottiglia di vodka. La cinepresa ci risparmia la visione, standosene nascosta dietro lo stipite di una porta, immobile come noi nella casa dell’uomo. È la sola volta in cui l’osceno resta fuori scena, perché per il resto del film tutto quello che accadrà non ci sarà risparmiato. I resti della prima vittima vengono chiusi in valigia e sparsi tra i cespugli. Le vittime di Honka sono già vittime della vita, donne disposte a prostituirsi e sottomettersi per un goccio d’alcol al primo sconosciuto che gli offre compagnia tra i fumi del locale.
La mansarda in cui vive Honka è alla stregua di una bettola. Mobili polverosi e sudici costretti tra pareti asfissianti in cui non si vede nemmeno la carta da parati, coperta da foto pornografiche. Ovunque vediamo appoggiate delle bambole, spettatrici silenti in quel posticino ferale. Il locale dove l’uomo raccatta le sue vittime è altrettanto squallido. Non per le foto o i monili scadenti, ma per i rimasugli di umanità. Avventori lascivi, ex-nazisti impenitenti e donne, grasse, agghindate alla meglio e disposte a seguire Honka con la promessa di una bottiglia. Anche uno come Honka, col naso storto, i denti gialli e gli occhi pendenti appare meglio delle case vuote in cui farebbero ritorno. E allora lo seguono, da sole o in gruppo. Qualcuna si salva per caso, qualcuna sfugge per un soffio, qualcuna non ha neppure il tempo di capire di essere salita in un girone infernale.
Chi avrebbe immaginato che un regista come Fatih Akin sarebbe stato paragonato un giorno e negli stessi rivoli di quotidiano a Lars von Trier?
La prima di queste, Gerda (Margarete Tiesel, l’attrice austriaca protagonista del primo capitolo della “Trilogia del Paradiso” di Ulrich Seidl), viene seviziata, umiliata disgustosamente a mani nude e con del cibo, e alla fine firma pure un contratto in cui acconsente a sottostare a Honka e a presentargli la figlia giovane e bella. Honka intanto si tiene la madre, ne abusa ad occhi chiusi mentre immagina la figlia in pose seducenti tra salsicce e pezzi di carne da macelleria. Grottesco, trash e volgare, ma da uno come Honka che fantasie ci si può aspettere? Honka vive alla ricerca dell’angelo biondo a cui ha acceso una sigaretta all’inizio del film e che sembra comparire per caso, come una storia a parte che non trova agganci. Proprio il caso seleziona le vittime dell’uomo. Per caso una donna si salva, per caso qualcuna accetta un bicchiere e quindi la morte.
A un certo punto, riesce a portarsi a casa tre di queste sventurate. Le vediamo camminare in fila indiana mentre transitano davanti a una chiesa come i The Beatles. Una sviene, le altre due purtroppo arrivano fino a casa. L’indomani, davanti a quella stessa chiesa, Honka viene investito e, come fulminato sulla via di Damasco, decide di cambiar vita. Ma per l’uomo è troppo tardi, o forse il tempo di una sessualità sana per lui non è mai esistito. Fatih Akin dipinge il ritratto di un depravato sociale, di un criminale violento in balia di misoginia, avidità sessuale e sentimentalità distorta. Ma da dove nasce un simile mostro? Il regista risponde chiaramente individuando l’utero del male nel lato deviato del miracolo economico della Germania degli anni ’70. Un paese che ha tirato fuori dalle difficoltà della guerra i suoi cittadini per lasciarsi in balia di un mondo moderno e oscuro.
Fatih Akin dipinge il ritratto di un depravato sociale, di un criminale violento in balia di misoginia, avidità sessuale e sentimentalità distorta.
“Der Goldene Handschuh” è inaspettato, eccessivo e incapace di controllarsi. Spinge a favore di camera ogni sorta di nefandezza sessuale e carnale. Gli umori corporei e il sangue si mescolano al cibo, impregnando la superficie dello schermo di un afrore che pare ci si appiccichi addosso. Nonostante gli arbre magique che Honka getta sui pezzi di cadavere nelle botole per attenuare l’odore. Dettagli ironici che smorzano l’aberrante, stridendo cinicamente nel loro tentativo di mettere un filtro visivo e sonoro alle immagini e ai rumori delle uccisioni atroci. Ma attraverso questi si crea uno spazio empatico, scomodissimo per gli spettatori, ma che Fatih Akin occupa per primo per contemplare quello che il suo protagonista è in grado di fare. La violenza sarà sempre in campo, insistita e incontenibile. La sudicia mansarda è talmente piccola che pure se sposti gli occhi sei costretto a rimanerci e guardare Honka mentre fracassa e smembra.
Osceno? Sicuramente. Eccessivo? Certo. Bastano le foto dei personaggi reali che intervengono alla fine di qualsiasi film tratto da una storia vera per giustificare la mostra dell’orrore di Fatih Akin? Personalmente non so rispondere. Ma tra chi esibisce l’osceno per onanismo autoriale e chi avanza l’alibi della realtà dei fatti, io preferisco quest’ultimo, e preferisco Fatih Akin. Probabilmente, visto al di fuori dell’assopito concorso berlinese, questo film non avrebbe destato in me tanto fascino morboso, ma è innegabile la sua qualità, non solo produttiva, ma soprattutto dell’eccezionale performance di Jonas Dassler che non risparmia nulla di sé e del proprio corpo. Tra il Friedkin di “Killer Joe” e le brutture di Urich Seidl con qualche glissata tarantiniana. Qualcuno è scappato dalla sala. Io sono rimasto e ho applaudito convinto, insieme a pochi altri. Lo rifarei!