Scrivere di musica è sempre difficile. Il recensore di turno, che sia il più grande nella storia della musica o l’ultimo arrivato in una fanzine sconosciuta, si trova sempre davanti agli stessi ostacoli. Il momento in cui scrive la recensione, il suo gusto personale e le tendenze del momento.
Una recensione “negativa” porta sempre qualcuno a chiedere se effettivamente si sia resa necessaria, e mettere in dubbio la capacità dello scrittore. Una positiva pone chi la legge nelle stesse identiche condizioni. Ognuno è fallibile, e lo dimostra l’azione di Pitchfork di modificare i voti delle sue recensioni, alcuni in maniera drastica, come lo 0 dato nel 2003 a Liz Phair che diventa un 6.
D’altra parte i contesti cambiano, la musica si evolve e anche gli ascoltatori. Quindi il cambio di voto di alcune delle recensioni potrebbe essere considerato positivamente, come un passo avanti verso la modernità, uno svecchiamento. La dimostrazione sta nel fatto che Pitchfork ha lasciato disponibili i vecchi voti nella sezione review, come a dire “L’avevamo fatto, ci eravamo sbagliati, ora questo è quello che pensiamo”
D’altra parte la mossa potrebbe considerarsi anche una “paraculata” per accaparrarsi il favore di artisti con cui avevano avuto a che ridire e che ora dominano le classifiche, o ancora più importante, del pubblico. Insomma, errare è umano e Pitchfork lo accetta, anche se cercando di nasconderlo, infatti a rendere noto il cambiamento sono stati gli utenti, che quando si sono accorti delle rettifiche si sono immediatamente mobilitati nella pubblicazione di screenshot delle vecchie recensioni su Instagram e Twitter. La domanda che rimane quindi è: Pitchfork ha preso coscienza del fatto che il mercato stia cambiando e ha fatto un mea culpa, oppure ha solo provato a nascondere la polvere sotto il tappeto?