Ci sono registi che da anni vengono coccolati da una certa fetta di pubblico e critica, da gente estimatrice a prescindere che ride o applaude per dovere più che per merito, spesso al solo apparire dei titoli di testa. Una situazione che si replica per tutti i film dei Coen. Che sia proiettata in un festival o direttamente per la grande distribuzione (che poi a ben contare non è poi così grande), ogni pellicola dei fratelli registi più famosi del cinema mette lo spettatore in una posizione scomoda.
Ti guardi attorno nel buio della sala e qualche fila più avanti un uomo ha riso a una battuta; cinque minuti dopo tocca a una donna sbellicarsi; e così via. A gruppi o in solo gli applausi e i fragori si ripetono. Alla fine tu, che non sei riuscito a sincronizzarti mai con chi rideva, cominci a vergognarti. Addirittura pensi di essere un imbecille mancante di spirito o un dissociato umorale. Ma, se la storia si ripete, qualcosa che non funziona, da una parte (la tua) o dall’altra (quelli che ridono), ci deve essere. Ed è troppo facile ridurre tutto alla trincea urticante del gusto personale. Perché in questo nuovo film di Joel e Ethan Coen c’è molto da sorridere, poco da ridere e ancora meno da ricordare.
Lo spazio mitico americano di “The Ballad of Buster Scruggs” dei Coen inquadra un certo tipo umano e un prevedibile ventaglio di cliché.
Antologia in sei capitoli prodotta da Netflix nell’ipotesi di una serie televisiva, “The Ballad of Buster Scruggs” ripropone situazioni comode e prevedibili di molto repertorio dei Coen. L’ambientazione è quella fortunata de “Il Grinta” (2010): la frontiera americana di due secoli fa. Lo spazio mitico americano individua un preciso paesaggio West ma ancor meglio inquadra un certo tipo umano e un prevedibile ventaglio di cliché. La frontiera si frantuma nell’impianto narrativo e diventa l’unico legame di congiunzione per una sestina di racconti di genere e anche di fattura molto diversi. Si passa dal musical al dramma e si chiude con un kammerspiel only word in carovana.
Probabilmente proprio la suddivisione episodica invita a una operazione da macelleria poco fruttuosa. Infatti, si è costretti a distinguere i pezzi buoni di “The Ballad of Buster Scruggs” dagli scarti, dimenticando l’unitarietà che un film, presentato come tale, pretenderebbe. A poco servono gli epiloghi mortiferi di ciascuna delle sei vicende raccontate, anzi. Dopo il secondo episodio capisci com’è la scansione e prevedi tutto il resto. Ancora peggio, cominci ad anticipare l’ironia annacquata della situazione che si va creando e tutto quello che rimane da chiederti è come morirà il cowboy, il cantastorie monco o il cercatore d’oro.
In “The Ballad of Buster Scruggs” di Joel e Ethan Coen c’è molto da sorridere, poco da ridere e ancora meno da ricordare.
“The Ballad of Buster Scruggs” è un saliscendi scomposto che percorre gag di facile piglio, scende sorvolando momenti di pura scrittura e curva nella speranza di portare in salvo la pelle con una pallottola sparata al momento giusto, un menestrello country o un angelico fantasma che suona la cetra. Restano le meritevoli intuizioni slapstick dei Coen, che hanno dato in passato e hanno dato ottime cose, ma che ormai alternano film sentiti ad altri – come questo – che sembrano allenamenti dietro la macchina da presa. Il grottesco innegabile si replica in tono minore, dosato male nei vari episodi e in generale in tutti i 135 minuti. Purtroppo, chi ha riso ai loro film precedenti ha riso a questo e riderà a tutti quelli a venire, finendo così per farsi complice di un’omologazione d’autore che non si vorrebbe da nessuno.