Laura (Penélope Cruz) e i suoi due figli, l’adolescente Irene e il piccolo Felipe, tornano in Spagna per partecipare al matrimonio della sorella. Suo marito Alejandro (Ricardo Darín) è rimasto a Buenos Aires a causa del lavoro. Nella città rurale in cui si trova la casa natale, Laura ritrova familiari e amici. Tra questi c’è Paco (Javier Bardem) con il quale aveva una relazione sedici anni prima e che oggi è uno dei proprietari di alcuni vigneti della zona. I primi minuti si concentrano sull’arrivo degli ospiti, sul matrimonio in chiesa e sulla festa. Tuttavia, nel bel mezzo della celebrazione, c’è un’interruzione di corrente e scoppia una tempesta. In pieno caos Irene scompare. Dopo pochi minuti suoi rapitori fanno recapitare un messaggio a Laura chiedendo un riscatto di 300.000 euro.
Asghar Farhadi mette insieme un dramma familiare in cui il rapimento, l’evento mattatore della trama, non è quello principale del film.
Questo è il punto di partenza di un film che da qui comincia a sovrapporre enigmi e colpi di scena drammatici, per mostrarci come ogni membro del nucleo familiare, così come i loro amici e vicini, abbiano qualcosa da nascondere. Segreti e bugie, traumi e misteri che ha portato Asghar Farhadi a scrivere un saggio sull’orgoglio, la colpa, la fede e la redenzione. Protagonista indiscusso nella fascia ristretta del cinema d’autore più innovativo, il regista iraniano è anche un abile creatore di suspense. Ma non di quella razionale e ben congegnata alla Alfred Hitchcock, quanto piuttosto di suspense fisica, epidermica, che tiene a stretto contatto emozioni, scelte morali e senso di colpa. In questo caso l’interesse primario dell’autore sembra essere il modo in cui le informazioni private diventano pubbliche. Ogni scena lascia il posto a una nuova rivelazione, alcune salienti e altre smaniose di emergere solo per produrre l’ennesima svolta.
Proprio in questo gli obiettivi e i risultati del film cominciano a divergere, rivelando orgogliosamente una natura da soap opera con aspirazioni drammatiche. Ma con soap opera o telenovela non s’intende declassare il lavoro del regista, bensì individuare i suoi sottogeneri di riferimento. Infatti, probabilmente, l’azzardo più riuscito è proprio la declinazione in un discorso autoriale dei topoi del melodramma. “Tutti lo sanno” è l’esempio – e in questo gliene rendiamo merito – di come si possano impiegare le convenzioni del film di genere, elevarle di rango e, in questo caso, adoperarle per scavare la psiche collettiva di una famiglia. La trama che innerva la prima parte del film è un tappeto di prevedibilità: parentele discutibili, infedeltà, tradimenti familiari. Dopodiché, nella seconda parte, il regista manipola queste convenzioni, la fluidità del racconto si blocca e lascia posto a una situazione di stallo collettivo: tutti sono sospetti e tutti sono innocenti.
“Tutti lo sanno” punta i riflettori sulla complessità dei conflitti, dei segreti e dei sentimenti all’interno di una famiglia multigenerazionale.
Come è suo solito, Asghar Farhadi mette insieme un dramma familiare in cui il rapimento, l’evento mattatore della trama, non è quello principale del film. Il regista lo usa come espediente per mostrare la vera morale degli esseri umani. Si prende il tempo per presentare i personaggi, per mostrare come si relazionano tra loro e poi, rapidamente, smantella tutto. Dal momento in cui Irene sparisce, la sfiducia generale, le ipotesi su ciò che è realmente accaduto, così come le accuse reciproche, non tarderanno a palesarsi. La differenza è che in film come “About Elly” (2009) e “Una separazione” (2011) l’iraniano era incredibilmente abile nel dosare le informazioni date e quelle nascoste, nonché a disseminare false tracce ovunque. Qui invece, la risoluzione è del tutto prevedibile, anche se il film cerca illogicamente di negarlo, nel vano tentativo di convincerci che quanto abbiamo capito fino a quel punto sia sbagliato.
“Tutti lo sanno” punta i riflettori sulla complessità dei conflitti, dei segreti e dei sentimenti all’interno di una famiglia multigenerazionale. Bulimico di gelosie, invidie, rimpianti, rancori e incomprensioni, Asghar Farhadi satura al massimo le ombre dell’essere umano. Solo di tanto in tanto la tensione emotiva viene stemperata, lasciando affiorare la sincerità e la resilienza degli affetti, il potere della morale e altre virtù bianche come umiltà, dignità e generosità. Il dolore e l’amore finiscono per somigliarsi nel significato, raffrontanti e sostituiti costantemente nella contingenza della vita: una medaglia che ci mostra una delle sue facce a seconda del momento. Proprio come l’istinto materno che, inizialmente inesistente in Laura, assumerà una portata drammatica. Nonostante le macchie di ognuno, tutti i personaggi ci appaiono credibili e sinceri. Solo per i rapitori proviamo disprezzo, proprio perché sono gli unici definiti e i soli ad utilizzare l’amore come arma di ricatto anziché di comprensione.
Con “Tutti lo sanno” Asghar Farhadi ha creato una trama perfetta, cesellata da dialoghi minuziosi in cui nulla è fuori posto.
Con “Tutti lo sanno” Asghar Farhadi ha creato una trama perfetta, cesellata da dialoghi minuziosi in cui nulla è fuori posto. Tuttavia, proprio questa precisione finisce per intiepidire il coinvolgimento empatico tipico del regista. Non ci sono né errori né sfumature ma, a dispetto di quanto richiederebbe il tipo di racconto, ciò che deve essere svelato è sempre evidente. Al sottotesto viene negato qualsivoglia fascino. Non c’è nulla che non appaia sullo schermo o non venga esplicitamente detto. Certamente incisivo nell’emotività e nella struttura del racconto, Asghar Farhadi replica senza innovazione i suoi punti di forza: portare alla luce il malessere racchiuso in tutte le relazioni familiari. Per farlo, concede battute di peso ad entrambi gli interpreti e tenta saltuariamente una deviazione dal suo stile tipicamente claustrofobico, lasciandosi avvolgere dalla fierezza dall’autenticità della campagna spagnola. Qualcosa però, finisce per sfuggirgli di mano.
Lo spazio di respiro dato ai personaggi e quello di movimento dato alla macchina da presa diventa eccessivo. Le note drammatiche superano quelle del thriller e le deviazioni diventano pericolosi fuori pista. Sotto il peso della frequente tonalità drammatica, il filo dell’intrigo e dell’inquietudine si allenta. In questo il titolo del film è involontariamente autoreferenziale: anche se i colpi di scena sono sorprendenti nella loro meccanica precisione, “tutti lo sanno” approssimativamente come si svolgerà il film dopo venti o trenta minuti dall’inizio. La cinepresa del regista indugia nel rendere cinematograficamente interessanti prove e indizi, come il fango incrostato sulle scarpe di qualcuno, le forbici poggiate sui ritagli di giornale e il minaccioso rintocco premonitore della campana di una chiesa. Ma è la trama del film a mancare di una reale risoluzione. Quando i colpevoli dietro il rapimento vengono smascherati, le loro identità ci sorprendono, ma le loro motivazioni restano incomprensibili.