È con profondo piacere che vi do il benvenuto sulle nostre pagine, cari Twenty Tour Hours. Piacere e rispetto, dal momento che la vostra è un’azione musicale che ha preso vita più di trent’anni fa. Vi andrebbe di parlarci di quanto è come questa creatura abbia vissuto finora, resistendo nel tempo e nello spazio?
Paolo: Quello che dici è verissimo e siamo molto orgogliosi. Sia di essere ancora in vita, sia che la formazione, sia rimasta praticamente la stessa dal 1987. A parte Elena, che si è unita recentemente con l’album “Left-To-Live”. L’unico membro che non suona più con noi, purtroppo per motivi di salute indipendenti dalla sua volontà, è lo storico bassista Nico Colucci. Ha firmato con noi i primi tre album dal 1991 al 1999. Attualmente, al trio originale Marco Lippe (batteria), Paolo Lippe (voce e tastiere) e Antonio Paparelli (chitarra), si è aggiunto Paolo Sorcinelli (basso e chitarra). È uno spettacolare musicista professionista, un raro caso di coesistenza fra profonda conoscenza della musica, dato che è diplomato al Conservatorio, e capacità di improvvisare. È incredibile come si sia subito adattato, anche in modo propositivo, all’originalissimo e inusuale metodo compositivo della band.
Vista la longevità del gruppo, vorrei chiedervi subito di raccontarci un episodio, un aneddoto, un pettegolezzo. Insomma, qualcosa che serbate dentro quel cassetto riservato alle istantanee private.
Marco: Potrei raccontare un paio di episodi tragicomici della nostra breve seppur intensa gavetta. Il primo avvenne nell’estate 1987. Avevamo una serata in un locale estivo all’aperto nei dintorni di Bari. Quando arrivammo per montare la strumentazione e fare il sound check, scoprimmo costernati che il palco non c’era. Passammo il pomeriggio a montare il palco sotto un sole spietato. Il locale si riempì all’inverosimile di gente. Fu un successo parziale a causa della stanchezza fisica per lo sforzo erculeo pomeridiano e di diversi problemi tecnici. Suonammo comunque una versione memorabile di “The Bastards”. Ma ciò che rese indimenticabile quella data, furono le 100’000 lire che il gestore ci diede alla fine del concerto. A fronte di almeno 2’000 paganti! Mancò poco che non venissimo alle mani!
Soddisfazione, danno e beffa. Mannaggia. E invece, il secondo episodio?
Era l’estate del 1989, avevamo una data a Latiano, nella piazza principale della cittadina brindisina. Un mio caro amico, collega pittore, che ci aveva invitato a suonare, una volta montata la strumentazione e fatto il sound check, ci invitò anche a cena offrendoci del vino rosso Primitivo strepitoso. Talmente buono che si rivelò però assolutamente fatale per il nostro bassista Nico. Era completamente andato! Vagava per il palco suonando col basso scordato, supplicandoci farfugliando ad ogni fine brano, di fare l’ultima canzone del set e di tornare a Bari.
La vostra è un’amalgama transregionale. Alla luce del vostro lungo e variegato percorso sapreste dirmi qual è stata l’influenza che ciascuno ha apportato all’interno del gruppo e come questo nucleo ha cominciato a diventare solido?
Paolo: In fase di composizione e arrangiamento l’apporto di tutti noi è paritario. Tutti partecipiamo all’organizzazione della struttura del brano e questa cosa ci piace molto perché è esaltante. Nel momento in cui ci rendiamo conto, suonandolo alla fine, di quello che siamo stati capaci di partorire, spesso rimaniamo stupiti. Penso che sia la cosa più bella del nostro essere una band, e quello che dopo tutti questi anni ci tiene ancora assieme. Diverso è il discorso per i brani non composti tutti insieme. In questo secondo caso viene fuori di più la personalità e prevalgono i gusti di chi propone il brano. In linea di massima Tonio propone generalmente brani più rock e io più pop. Tuttavia, talora le tendenze si invertono, come è accaduto con il brano più squisitamente progressive “Supper’s Rotten”, il cui scheletro è stato interamente proposto da Tonio.
Insomma siete davvero coesi.
Marco: Siamo tutti dotati di una smisurata passione per la Musica a 360°, ascoltiamo di tutto. Alla luce di quest’ultimo doppio album, posso affermare che nella musica di “Close – Lamb – White – Walls” aleggiano diverse influenze sotto forma di citazioni musicali inconsce. Pink Floyd, Talking Heads, King Crimson, The Sound, Joy Division, Yes, Gentle Giant, Genesis e naturalmente Tuxedomoon, con cui abbiamo iniziato una bellissima collaborazione artistica.
Cos’è cambiato nel modo di comporre dei Twenty Four Hours dagli inizi della vostra carriera, che ha avuto inizio nei primi anni ’80?
Marco: Nei favolosi anni ’80, eravamo studenti e vivevamo tutti a Bari, quindi disponevamo di abbondante tempo libero. Potevamo permetterci prove quotidiane e si componeva tutti insieme, solitamente partendo da un riff di chitarra o da un giro di basso o di tastiera. Per comporre bastava anche solo un ritmo di batteria su cui improvvisavamo. La registrazione metodica delle prove c’ha sempre aiutato molto per migliorare la qualità delle nostre canzoni.
Eppure vivete distanti gli uni dagli altri.
Paolo: Infatti la lontananza ci ha condizionato. Vivendo in 4 città diverse e molto lontane (Torino, Bergamo, Fano e Bari), prevalgono i brani proposti da uno di noi rispetto a quelli composti tutti assieme, che però non mancano mai. Tutto “Left-To-Live” è costituito da brani composti e arrangiati live da me. L’ultimo disco comprende ben 5 pezzi ugualmente composti e arrangiati nello stesso modo, a Fano alla Casa della Musica (FAB LAB). È un posto magnifico gestito dal Comune dove si può suonare e registrare gratuitamente.
Arriviamo a “Close-Lamb-White-Walls”. Un album importante e sicuramente atteso. Vista la caratura che il titolo promette, immagino un tempo di gestazione piuttosto lungo. Vi va di raccontarci l’anima della scrittura di questo nuovo album?
Paolo: Tutto è nato a Pasqua 2017 a Fano alla Casa della Musica, durante una meravigliosa settimana di full immersion con i nostri amati strumenti, il mixer e un registratore digitale multipiste. Lì sono state buttate giù le basi dei futuri brani. Per preservare l’effetto “live”, le guide e alcune parti di organo e basso sono rimaste le medesime. Lo stesso per la rullata finale di “77”. E comunque ognuno di noi ha ri-registrato le sue parti riascoltando i provini di Fano e quindi non si è perduta quell’atmosfera di “improvvisazione” nemmeno in studio di registrazione. Anche per “Left-To-Live” avevamo fatto così, e cerchiamo sempre di registrare i brani in presa diretta con il minor numero di sovrapposizioni possibile. Questo vale per i brani composti tutti assieme. Quelli più intimisti come “Intertwined” o “She’s Our Sister”, invece, sono il risultato di un lavoro un po’ più solitario e individuale.
Il singolo “Adrian” è una dedica al compianto Adrian Kelvin Borland, vocalist e frontman dei The Sound. Mi domando se l’idea di illuminare un genio del passato sia nutrita da una vena pedagogica.
Paolo: Gli omaggi musicali si fanno a chi si ama profondamente. È avvenuto per “Moonchild” di King Crimson, la nostra prima cover. E poi “Mother Nature Son” (The Beatles), “Darkness 11/11” (Van der Graaf Generator), “What Use” (Tuxedomoon) e “Embryo” (Pink Floyd). “Adrian” è un brano malinconico e molto toccante, a tratti disperato. Lo abbiamo dedicato a Borland e ai The Sound, una band geniale, sottovalutat. E che DEVE essere assolutamente riscoperta. Sotto questo aspetto sì, ci sentiamo profondamente pedagogici.
In che modo vi ha segnati?
Marco: Io e Paolo avemmo la fortuna di vedere Adrian Borland dal vivo coi suoi tenebrosi The Sound nel 1984 a Bari. Fu un concerto allucinante. Nel pomeriggio si era scolato una bottiglia di Vecchia e si presentò in condizioni critiche sulla pista da ballo. Il palco non c’era neanche lì! Dopo tre brani, disse che sarebbero tornati dopo mezz’ora, scatenando insulti da parte del nutrito pubblico presente. Adrian tornò dopo mezz’ora e i The Sound fecero un concerto strepitoso.
A proposito di ritorno al futuro… Come si è data la presenza e la collaborazione all’album di Blaine L. Reininger e Steven Brown, membri fondatori dei Tuxedomoon? E quanto è stata rilevante nella scrittura dei brani “Intertwined” e “All The World Needs is Love”?
Paolo: Blaine ha ottimizzato il testo di Elena e ha composto tutte le parti di violino, oltre a interpretare in toto la voce di “Intertwined”. Steven ha impreziosito “All The World Needs is Love” con il suo sax leggendario. In entrambi i casi mi sembra che si possa dire che senza il loro contributo i brani non sarebbero usciti così bene.
Esiste all’interno di “Close-Lamb-White-Walls” un messaggio non detto che auspicate possa esser colto dal pubblico?
Antonio: Messaggi subliminali non ci sono. Tuttavia, credo che a livello globale il lavoro musicale possa celare dei rimandi, corrispondenze e messaggi che possano essere colti a livello personale dopo diversi ascolti. Voglio dire, parere personale, che da un certo punto in poi la musica comincia a svilupparsi in modo autonomo rispetto alle singole intenzioni e aspettative dei compositori. Assume una connotazione onirica, come se avesse vita propria e parlasse dall’inconscio.
Una domanda per Elena. Come ci si sente ad esser la sola donna, peraltro new entry, dentro una band dell’identità tanto forte come i Twenty Tour Hours?
Elena: Diciamo che quella di essere l’unica donna in una band è un’esperienza molto frequente. Non credo che abbia particolarmente influito sul mio contributo all’album o su come mi sono sentita durante il lavoro di composizione e registrazione. È stato invece più singolare entrare a fare parte del progetto. Ero una adolescente quando andavo ai concerti dei Twenty Four Hours ed è stato decisamente emozionante collaborare con loro, considerando anche fattori come la distanza geografica e l’essere fratelli e sorella. È davvero una gioia!
Domanda di rito: il concerto a cui i Twenty Tour Hours non possono assolutamente rinunciare (di gente che suona oggi, nel contemporaneo).
Marco: King Crimson.
Paolo: Simple Minds.
Elena: Otep.
Antonio: David Gilmour.
Paolo S.: Greta Van Fleet.
Progetti per il futuro? Vorremmo anche conoscere le eventuali date del tour, non svagheggiate!
Marco: Ci piacerebbe suonare dal vivo il nuovo album la prossima estate e ci stiamo muovendo a tal proposito. Se riusciremo a incastrare ferie, impegni lavorativi e familiari di tutti, non è escluso che si possa rivedere i Twenty Four Hours calcare di nuovo il palco. Si spera non più da montare!
Vorrei seguitare a farvi domande. A cercar di capire la natura dell’amore verso la musica che decisamente vi ha tenuti uniti e indubbiamente vi ha rivoltati. Ma è tempo di saluti. E allora cedo a voi la parola, l’ultima traccia. Con l’augurio che non passi e resti impressa nei nostri cari, carissimi lettori.
Marco: I Twenty Four Hours, sono l’ultima vera band progressive rock italiana, trait d’union fra gli anni ’60, ’70 e gli ’80, fra il pop, la psichedelia, il prog e il post punk. Il nostro doppio album vi stupirà e meraviglierà e non potrete non amarlo. Compratelo e non ve ne pentirete!