Ormai più di dieci giorni fa, quando questo enorme strapazzamento chiamato Mostra del Cinema ha tagliato il suo settantacinquesimo nastro, gli addetti ai lavori pronosticavano applausi prolungati all’ultimo film che sarebbe passato in concorso. Una scommessa da allibratori cinefili? No! Semplicemente una promessa fatta a se stessi leggendo il minutaggio di tutti gli altri film in competizione, tutti ben oltre le due ore di durata. Di contro, “Zan” (Uccidere) di Shin’ya Tsukamoto, regista guadagnatosi frotte fandom del new-horror col suo primo “Tetsuo” (1989), poi fidelizzate negli anni con i capitoli successivi, spiccava nella sua sfrontata brevità. Solo 80 minuti! E diciamo pure che chi vi scrive è entrato in sala incoraggiato dalla durata più che dal genere. Eppure, alla fine, complice il minutaggio contenuto, il film del regista giapponese (l’unico orientale in Concorso), merita applausi, sinceri, sentiti e non solo ironicamente ripromessi.
“Zan” (Uccidere) si serve di uno stile ossimorico, che si oppone al suo contenuto, finendo di contro per esaltarlo.
“Zan” è la a storia di un irrequieto ronin (un samurai senza padrone) che nel turbolento Giappone di metà ‘800, quando il paese sta attraversando una violenta fase di transizione, cerca di rifarsi una vita a Edo, l’attuale Tokyo, lavorando in una fattoria. Sul suo cammino incrocia la giovane contadina Yu Aoi originaria del suo stesso villaggio.
Per onestà va detto che di questa storia non mi interessava niente prima di entrare in sala e sicuramente continuerà ad essere così, ma il regista, applauditissimo alla proiezione stampa, cattura lo sguardo e l’interesse anche di chi, come il sottoscritto, per affinità elettive si tiene lontano da samurai, kimono e katane. Il valore innegabile del film è tutto racchiuso in quello che parrebbe un glossario di un manuale cinematografico. La regia seleziona campionature esemplari di grammatica filmica, accostandole senza timori e disattendendo i limiti di purezza e cliché imposti dal genere.
Nell’alternanza tra azione e primi piani, la regia di Shin’ya Tsukamoto legge ad alta voce tutto l’alfabeto filmico.
“Zan” si serve di uno stile ossimorico, che si oppone al suo contenuto, finendo di contro per esaltarlo. Siamo molto lontani dalla tradizione Jidai Geki con questo film. “Uccidere” attinge dalla tradizione per ribaltarla, grazie a soluzioni formali fuori dal tempo. Nell’alternanza tra azione e primi piani, la regia di Shin’ya Tsukamoto legge ad alta voce tutto l’alfabeto filmico. Le panoramiche orizzontali in camera car si legano agli acquietati lunghi; le soggettive umide lasciano il posto a un bacio staccato sull’asse. Un sinestetico saliscendi viene costruito tra gli estremi costituiti da un accenno di (sado)erotismo e momenti di gore ed isterismo. Enfasi (tanta!) ovunque, nelle immagini e nel sonoro – quest’ultimo variegato ulteriormente da arpeggi elettronici, amplificazioni eco e rumori botanici.
“Zan” è un film di genere inaspettato come una coccinella rossa a due punti che si dirige in alto per poi, arrivato in cima, volare verso l’alto. Finalmente un esempio di regia polifonica, non scontata e soprattutto non saccente, che conosce perfettamente il proprio mezzo espressivo, funzionalizzando all’esaltazione del proprio contenuto, solo in apparenza fatto di semplicità tematica e narrativa. Shin’ya Tsukamoto riesce con il suo “Uccidere” a liberare le inquietudini del mondo moderno in un urlo indietro nel tempo, condensando tutte le armi da fuoco in una sola spada e avvicinandoci all’essenza dell’uomo.