Diamo un caloroso benvenuto a Luca McMirti su Music.it! Iniziamo con una domanda molto cara alla redazione. Hai un aneddoto musicale imbarazzante e stravagante? Raccontalo ai nostri lettori!
Ricordo una volta molti anni fa alla fiera delle etichette indipendenti che si svolgeva al Lingotto di Torino. Ero lì per cercare qualche contatto e fui scambiato per uno dei Bluvertigo da due ragazzine. Da cosa lo avessero dedotto, ancora vorrei capirlo… Fu abbastanza imbarazzante. Per me e per loro.
Quali artisti ti hanno accompagnato nella pubertà e poi nella maturità musicale?
Da che ho memoria sono tre i momenti fondamentali. Nel 1975, quando avevo 6 anni, la cassetta BASF di mio fratello maggiore con sopra registrato “Selling England by the pound” dei Genesis, nel 1977 quando ho scoperto Elvis Presley, nell’anno della sua morte, una vera e propria bomba atomica, e nel 1984 l’incontro con Bruce Springsteen. In mezzo a tutto ciò, ho assorbito qualsiasi cosa di buono la musica avesse da offrirmi, dal rock al jazz, passando per il blues, il punk, la new wave e via discorrendo. È inutile che mi metto a fare i nomi. Sono intuibili.
Sei stato leader dei Rockin’ Sound Machine, poi hai militato nei Dust’n’Bones e nei Del Sangre. Cosa ti ha portato a intraprendere una carriera acustica solista?
Milito ancora nei Dust’n’Bones, ma occasionalmente. In primo luogo ho sentito l’esigenza di fare le cose a modo mio senza dover cedere o andare incontro al parere di nessuno. Purtroppo lo stare in una band implica anche il fatto di dover accettare una sorta di democrazia che alla lunga si rivela deleteria, a meno che non ti chiami Lennon/McCartney o Jagger/Richards. Purtroppo in una situazione ogni componente vuole dire la sua, anche chi non è capace. Di conseguenza si creano atmosfere che portano a un deterioramento di rapporti e di qualità del lavoro. Lavorare per conto mio, oltre che a rimettermi in discussione, è servito per prendermi le mie responsabilità. Credo che alla mia età me lo meritassi. È successo casualmente, in un momento nel quale volevo abbandonare la musica dal vivo, cosa che poi ho comunque fatto se si eccettuano rarissime apparizioni.
Il tuo progetto unplugged si chiama “Songs from the rain”, album di ben 13 brani. Di cosa parlano? Cosa hai voluto infondere in ognuno di essi?
“Songs from the rain” non era nato per diventare un disco, ma una raccolta di cose intime che avrei immediatamente riposto nel cassetto. È solo grazie all’insistenza del mio amico e produttore Salvatore Papotto, che mi ha convinto a farle uscire sotto l’egida della sua etichetta La stanza nascosta Records, che ho deciso di realizzare questo disco. Sono brani molto personali, oscuri e crudi come la veste che ho volutamente cercato di dargli, che scavano nel profondo del mio stato d’animo. Se volessi esprimermi in modo poetico ti direi che sono lettere dall’inferno.
Il singolo di lancio, nel quale sento una leggera rabbia, è stato “Blame It on You”. È un brano autobiografico? Ti sei mai pentito di alcune scelte fatte in ambito musicale?
No! Perché se è vero che da un lato avrei avuto tanto da guadagnare in termini di riscontro, dall’altro avrei perduto ciò che mi è più caro e per cui ho sempre combattuto. La mia dignità e la mia integrità morale e artistica. Poi, ogni brano contiene in sé qualcosa di autobiografico anche se quando racconti una storia, qualsiasi essa sia, non sei diverso da un attore che interpreta un ruolo.
E la malinconica “Song for T” invece? Chi è T?
T sta per Tom. Tom Petty. È stato uno dei fari della mia adolescenza e se n’è andato proprio mentre stavo ultimando il mio lavoro di pre-produzione. Diciamo che è stato il mio ultimo saluto a un artista veramente eccezionale. Questa canzone parla del vuoto che ho provato al momento della notizia della sua morte.
Tutti i tuoi testi nascono in inglese? Come mai hai scelto questa lingua per esprimerti?
Perché è una lingua che ti dà un potere di sintesi che l’italiano non offre. Tieni presente che ho scritto moltissimo in italiano, l’intera produzione dei Del Sangre sta lì a dimostrarlo. E poi l’inglese è molto più musicale, permette alla voce di esprimersi al meglio. E le mie radici musicali sono anglosassoni e questo genere rende meglio nella sua lingua di origine. E poi – qui mi si passi la visione romantica – dopo che hai sentito una canzone qualsiasi di Piero Ciampi, capisci che per quanto tu possa sforzarti, qualsiasi cosa tu possa scrivere in italiano dopo di lui, sarà sempre una cagata pazzesca.
Cosa ne pensi dell’attuale scena musicale?
Se per scena intendi ciò che va per la maggiore, non penso. Sono molto preoccupato.
Cosa farai adesso? Sei già all’opera per nuovi lavori?
Ho del materiale da parte ma è ancora troppo presto. Del resto “Songs from the rain” è relativamente recente e ha bisogno di essere fatto ascoltare ancora. Tieni presente la scarsa predisposizione della gente ad acquistare i dischi e la mia idiosincrasia nel portare questo lavoro fuori, perché a meno di teatri o luoghi di ascolto vero e proprio, non esistono posti dignitosi in cui esibirsi in un concerto acustico. Almeno nella mia visione delle cose, quindi la vedo una prospettiva assai lontana se mai ci sarà un altro disco…
Ti ringrazio per essere stato qui con noi. Le ultime righe sono tutte tue, per salutare i nostri lettori come meglio preferisci!
Un saluto e un abbraccio a tutti i lettori di Music.it, sperando di incontrarvi là fuori da qualche parte. Una raccomandazione… Sostenete la musica originale!