Quante persone possono entrare secondo voi in un m2? Una, dieci, cento? A carrozzerie n.o.t., su un tappetino erboso di 1×1 m, ce ne sono entrate sette, selezionate tra il pubblico subito prima dello spettacolo. Chissà quanti di quei volontari conoscevano la dinamica partecipativa di una performance che ha debuttato, dopo incubazione triennale, al Pergine Festival nell’estate 2018. Chissà quanti di loro, cioè, avevano occhio e cuore preparati a saltare l’ostacolo che divide il palco dalla platea. Una linea sempre più invisibile, che la maggioranza degli spazi teatrali d’oggi, carrozzerie n.o.t. compreso, ha fisicamente attenuato. Ciò in parallelo alla produzione di molti artisti, performer, registi, che, dal secondo Novecento in poi, indagano fittamente la consistenza di quella traccia. Che in fondo è inalienabilmente fondata nella nostra coscienza di pubblico sotto sotto – o, perché no, sopra sopra – borghese.
Lo schema di “M2” prevede che le esplorazioni dei volontari avvengano sulla base di regole fornite dall’alt(r)o.
Un’audience, cioè, che compulsa teatri alla ricerca di un tempo e di uno spazio di riflessione, divertimento e catarsi pur nell’alveo di una protezione istituzionalizzata. Un pubblico che, sia chiaro, può essere anche attivissimo. E criticamente ricettivo e disposto a prolungare la vita dello spettacolo nella propria coscienza. I Dynamis, nati a Roma nel 2007, vanno tuttavia oltre questa cristallizzazione del ruolo del pubblico. “M2” è una restituzione eccezionale della loro ricerca a riguardo. I sette intrepidi volontari ci accolgono dunque in sala, spalle al muro. L’unico performer professionista – ma già intuiamo una vibrazione anomala nell’uso del termine – è il sottile e tagliente Francesco Turbanti, e si pone come tutor. Guiderà i neonati animali da palcoscenico nelle imprese tra la ludoteca e la gogna, sostanzialmente mosse dall’indagine di quel metro quadrato al centro della scena. Cosa e come può avvenire in quel ritaglio angusto, abitato da una comunità provvisoria di sconosciuti?
L’ingresso in scena non è tuttavia spoglio di significato. Non è dominato da quella presenza, di per sé intrigante, dei volontari. È, semmai, velato di complessità polisemiche dietro il sorriso beffardo di Francesco Turbanti, dietro i suoi occhiali da sole e la sua voce a tratti smorzata. Il suo atteggiamento polarizza lo sguardo del pubblico, ma al contempo ribadisce l’ambiguità tra chi occupa il palcoscenico per professione e chi per eccezione. La voce fuori campo di Andrea De Magistris, regista del gruppo, evoca l’ingresso del tutor attraverso la domanda che apre anche il libro della Genesi: «Dove sei?». La suggestione biblica illumina preliminarmente il rapporto verticale tra quella voce e il mediatore-attore, e fra questo e i volontari. Lo schema di “M2” prevede dunque che le esplorazioni dei sette avvengano sulla base di regole fornite dall’alt(r)o. Il tutor verifica con piglio tra ironico e stizzito che non si deroghi alle istruzioni.
I Dynamis finiscono per suscitare una riflessione non stereotipata, pre-ideologica ma costitutivamente politica.
L’istituto pedagogicamente positivo del gioco lascia così spazio all’impressione, mai esplicitata fino in fondo, che l’isola sia un carcere, il tutor un distaccato secondino. Dopotutto la regola fondamentale è non mettere mai un piede fuori dal “M2“. Che sarebbe, appunto, un’isola, attorniata da un mare profondo. La maglia regolativa si allarga fino a includere la possibilità di uno scambio di prigionieri in medias res. Viene auspicata, o comandata, un’interazione ulteriore fra volontari e pubblico, per consentire a chi volesse di dare il cambio. Possibilità che riattiva il senso di protezione da platea, tutto sommato intoccato fino a quel momento. Chi, effettivamente, ci assicurava che i volontari fossero realmente tali? Così, invece, l’azione partecipativa si sdoppia e ribadisce la fragilità di una performance esposta all’arbitrio. Che è, appunto, performance nel senso della sua contingenza assoluta: il numero di cambi offerti dal pubblico varia di serata in serata.
È forse questo un cardine del dispositivo, da cui gli interrogativi sino ad allora ventilati prendono forma. E interpellano il problema fondamentale della libertà, indagata nell’ambito specifico della rappresentazione. Possiamo intervenire solo perché e fintanto che è la voce fuori campo a consentircelo? E se, offrendoci, fossimo respinti da quel tutor dallo sguardo indecifrabile? E se la nostra partecipazione ci mettesse in effettivo pericolo? L’offerta di partecipazione è reale? Possiamo davvero oltrepassare una linea? Insomma, “M2” è una performance anche nel senso processuale del termine: non offre lo spettacolo come contenuto, ma come contenitore di dubbi. La vera partecipazione si rivela essere non tanto quella dei sette, ma la nostra nel porci quei quesiti, o altri. Nel circoscrivere, al limite categorizzando, la qualità dello spettacolo. Così come gli improvvisati performer perlustrano il M2, facendo esperienza dell’obbedienza e del limite, noi pubblico perlustriamo il significato dell’ambiente-teatro intorno a noi.
“M2” è una performance anche nel senso processuale del termine: non offre lo spettacolo come contenuto, ma come contenitore di dubbi.
Si giunge così al nucleo concettuale messo in luce dai Dynamis. “M2” è un tappeto di 1×1 m, ma è anche il titolo di qualcosa, un accadimento che ha luogo in un dove e per una certa durata. È l’insieme delle nostre sensazioni e ragionamenti. Di quel momento in cui potevamo essere interpellati per entrare in scena e di quello in cui ci siamo seduti a osservare. Sull’uscita di scena il dialogo fra il tutor e la voce ritorna, simmetricamente rispetto all’incipit, ma con un’intimità che stavolta ferisce. Quante persone, quante galline, banane, profughi entrano in un metro quadrato, si chiedono i due, abbozzando dei calcoli. Se “M2“ è superficie abitabile, un numero potenzialmente finito. Se “M2“ è tutto questo che viviamo, è un’infinità di cose, persone, concetti. La domanda iniziale, «Dove sei?», dispiega la sua potenza esistenziale, attivando una geolocalizzazione che coinvolge l’io rispetto alla comunità.
Come i sette nel “M2“, per risponderci siamo chiamati a prendere contatto corporeo con l’ambiente, a fare i conti con la diversità che costipa lo spazio. Con la sua forma e il suo significato. Titillati a suon di suggestioni e penetrati da questa periscopica interrogazione, scomponiamo l’ordine e la misura del “M2“. Lo stiracchiamo nel nostro corpo-memoria fino a che non appare chiara un’immagine che muove in sottotraccia per tutta la serata. Il mare immaginario intorno al praticello si colora di blu: diventa il mare nostrum, quel Mediterraneo eterno corridoio di migrazioni. I Dynamis finiscono per suscitare una riflessione non stereotipata, pre-ideologica ma costitutivamente politica. Sollecitano la personale attitudine ad accogliere l’altro nel personale intorno, commisurandolo al nostro bisogno e ai nostri limiti. Bene sarebbe che qualche nostrano ministro vedesse di cos’è fatto questo “M2“, magari come volontario in scena.