Perplessità. Una sola parola per descrivere il sentimento diffuso dopo la visione de “Il primo re” di Matteo Rovere. Classe 1982, il regista vanta una carriera sin da giovanissimo addentrata nel settore cinematografico. Tanto da inserirsi tra le nuove figure di spicco del cinema italiano. Sopratutto dopo la fervida accoglienza del suo ultimo film del 2016 “Veloce come il vento”, in cui trovavamo Stefano Accorsi, sporco ed emaciato, nel ruolo di un tossicodipendente, talentuoso ex pilota.
Questa dissacrazione dell’immagine attoriale, Matteo Rovere la mantiene anche per la coppia dei gemelli de “Il primo re”. Alessio Lapice e Alessandro Borghi, rispettivamente Romolo e Remo, infangano e deformano i loro aspetti, le posture e i gesti, per entrare il più possibilmente in contatto con le fisicità degli uomini dell’età del ferro. Un lavoro fine, come quello svolto nel recitare in latino arcaico, e quello della fedele ricostruzione di tutti gli apparati storici.
Eppure permane perplessità. Da un punto di vista economico si riconosce la magnificenza dello sforzo produttivo, che consta di due anni di lavorazione e otto milioni di euro. Dal rispetto della struttura “Il primo re” sembrerebbe non possedere nessuna originalità. Un sentimento contrastante, bino, che appanna la possibilità di dare un giudizio pienamente limpido. Per questo, a mio avviso, l’unico modo per poterne comprende in toto pregi e difetti del film di Rovere, è analizzarlo attraverso la lente di due contesti distinti.
Quello produttivo, più precisamente nell’ampio spettro del cinema nostrano, e quello narrativo-registico. La storia, ben nota a tutti, è quella dei due fratelli Romolo e Remo, figli di Rea Silvia e del dio Marte, e la seguente fondazione della città di Roma. Il capitolo più celebre della mitologia romana, cui Matteo Rovere e i due sceneggiatori Filippo Gravino e Francesca Manieri attuano un processo di rielaborazione.
Il grande difetto de “Il primo re” è nella sua struttura narrativa e registica
Quello che salta subito all’occhio è una diversità rispetto ad altri film italiani contemporanei. Caratteristica su cui la critica, già dalle prime immagini del trailer, si è sentita in obbligo di mettere l’accento. Anche se l’Italia ha un’ampia tradizione di peplum, di film narranti gesta eroiche e mitologiche, in costume, con maestose scenografie, non se ne vedeva più neanche l’ombra. Matteo Rovere, quindi, riesce a portare in auge un racconto non più presente sui nostri schermi, adoperando una lavorazione più vicina agli standard esteri che nostrani.
Spoglia il racconto di Romolo e Remo di tutta quella epicità, e di quella patina già appartenente all’epoca dell’Impero romano con cui solitamente viene contestualizzata la vicenda. Scegliendo un punto di vista più fenomenologico, meno mitico: un 753 A.C. barbaro e turpe. Avvalendosi di una sostanziosa equipe di ricercatori, e sottoponendo gli attori a un lungo training, ottiene una rappresentazione quanto più fedele del periodo.
A fronte di un minuzioso operato del comparto tecnico e artistico, il grande difetto de “Il primo re”, è nella sua struttura narrativa e registica. Staccandolo dal contesto italiano, e mettendolo a confronto con altri film di genere di riferimento, si evince un repentino e straniante sviluppo dei due protagonisti.
Dopo un incipit ben congegnato, Remo inaspettatamente passa dall’essere un fratello premuroso a un villain sanguinario, e Romolo da un indifeso pastore a un leader saggio e pacifico, di stampo simil-cristiano. La narrazione tende a soffermarsi eccessivamente su elementi secondari, per poi tralasciarli e mostrare l’evoluzione dei protagonisti in modo sfuggente. Questo eccessivo focus su avvenimenti o personaggi di poca importanza, porta inevitabilmente a una dilatazione narrativa marcata. E di conseguenza a un crescente calo d’interesse sulla vicenda.
“Il primo re” rimane in un limbo. Grande in patria, piccolo nel mondo
Anche sul piano registico, “Il primo re” non dà pienamente sfogo alla sua capacità. Rovere opta per una serie di soluzioni troppo simili a tanti altri film e serie, varcando il più delle volte la soglia del già visto. Sopratutto se accompagnate a una regia di base poco dinamica e interessante, “Il primo re” non brilla decisamente di originalità.
Anzi, da film storico e epico, proprio nei momenti in cui dovrebbe spiccare, coinvolgere e intrattenere, la sua eccessiva staticità smorza quell’immagine barbara, violenta, e accuratamente storica data. Il film di Rovere parte alla grande, per poi rallentare subito il tiro fino al suo culmine prolisso e scarsamente avvincente. Un brutale arresto registico e narrativo, non conforme al genere di film a cui “Il primo re” si rifà.
Tralasciando il tutto, Matteo Rovere ha decisamente fatto luce, anche se non appieno, sulle capacità che il nostro cinema può (ri)avere. Più volte ha ribadito la sua volontà di volere uscire dagli schemi pedanti del panorama italiano. E con “Il primo re” questo merito può sicuramente prenderselo. Avendo a disposizione un budget e dei tempi di lavoro superiori allo standard locale, ha aperto la porta a possibili scenari futuri.
Forse lui e Gabriele Mainetti, potranno rappresentare una sorta di svecchiamento del cinema italiano a venire. Tuttavia, “Il primo re” rispetto a “Lo chiamavano Jeeg Robot” non è spinto da una verve stilistica innovativa e sagace, per cui il paragone risulterebbe solo in riduzione. “Il primo re”, quindi, rimane in un limbo. Tanto accurato, quanto poco sensazionalistico e originale. Grande in patria, piccolo nel mondo.