Ciao Adriano! Benvenuto sulle nostre pagine! Cominciamo subito. Per rompere il ghiaccio, vorrei cominciare dal passato. Non quello della produzione artistica, ma piuttosto domandarti se esiste, nella tua memoria, il momento in cui hai capito che la musica sarebbe stata la tua vita, anche materiale.
Ciao a te e grazie mille a voi! Dunque, sì. Ci fu un giorno in cui ricordo che stavo facendo una jam session con degli amici. Avevo tipo 16 o 17 anni. Eravamo in un posto dove suonavamo ogni tanto, qui ai Castelli Romani. Mi ricordo che fu una delle prime volte in cui… sai quando suoni ma senza pensare troppo? Non so, è come se la musica facesse un po’ da sé. E quindi, ecco mi ricordo che quella volta, alla fine della serata e della jam, ebbi la netta sensazione che quella cosa che stavo facendo mi piacesse talmente tanto che ci avrei speso la vita. Ma in maniera che mi avrebbe reso felice, ecco. Quella sensazione mi aveva reso felice. Ti parlo ormai, di un bel po’ di anni fa.
Beh, questo è bellissimo. Non è usuale sentir parlare di felicità rispetto ala propria attività. Per quanto la passione sia presente, è pur sempre un lavoro, no?
Eh, ma sai, in generale, è ovvio che la vita talvolta ti porti a trovare un’occupazione per avere i soldi e poter veder realizzati i tuoi sogni. Però, per quanto possa, uno dovrebbe cercare di rendere il proprio lavoro una delle più importati manifestazioni della propria esistenza. Perché poi ci si mette tanta passione, ci si investono tante energie, tanti sogni, tanto tempo. Riuscire a canalizzare tutto in una cosa che, se sei fortunato ti piace anche, è un obiettivo della vita che penso possa essere importantissimo, ecco.
“Passione” e “Pazienza” hanno la stessa radice: quella di “Pathos”, d’altronde. Il percorso si costruisce pian piano. Da bambino che cosa ti facevano ascoltare? Qual è il nome cui dare la colpa della tua primissima presa di coscienza musicale come fruitore?
Ricordo che i miei genitori mi portavano al mare a Sabaudia. Facevamo la Pontina in macchina e mio padre mi faceva ascoltare i dischi di Francesco Baccini e altre robe improbabili. Cose così, pop italiano. Fondamentalmente nessuno era musicista in famiglia, quindi si ascoltava quello che c’era. Ricordo che mio padre cantava le canzoni di Lucio Battisti a delle sonorità altissime! Però ecco, così, giusto per divertirsi a casa e per far ridere mia madre, probabilmente.
Da ragazzino facevo lezioni di pianoforte e quindi avevo associato la musica a una cosa un po’ pallosa. Però mi ricordo che un amico mi fece ascoltare la cassetta dei Nirvana, “Nevermind”. Io avevo tipo dodici anni e ricordo che mi accese, mi eccitò particolarmente quella musica là! E da lì cercai le origini di quell’azione musicale. Poi arrivò il resto: gli anni del liceo, più consapevolezza… un po’ come per tutti, no?
Insomma potremmo imputare i Nirvana come colpevoli della tua coscienza musicale.
Guarda, ci fu un anno particolare in cui vidi “Ritorno al futuro”, il film su Jerry Lee Lewis “Great balls of Fire” e poi i Nirvana. E tutta questa roba insieme mi ha dato un po’ l’imprinting su quello che faccio ancora oggi.
In effetti tra “Ritorno al futuro” e i Nirvana, quello che si apre è lo scontro generazionale che tutti e tutte coloro che sono cresciuti tra gli ’80 e i ’90 hanno poi vissuto.
Eh sì certo, tutta quella roba là!
Ho letto Marino nella tua biografia, ma hai parlato dei Castelli Romani. Vorrei sapere se l’ambiente in cui sei cresciuto ha contribuito in un qualche modo alla formazione del tuo DNA musicale.
Ti spiego: non dico Marino perché in realtà lì ci sono proprio nato. C’era un ospedale e comunque fa parte dei castelli romani. In verità sono cresciuto in un altro paese che è Castel Gandolfo, che sta accanto a Marino. E Castel Gandolfo è famoso perché ci sta il Papa, è un ambiente un po’ cattolico. Probabilmente, ha influenzato in un certo senso perché ricordo che da ragazzino stavo in oratorio e c’era il prete che ci dava da fare. E c’era pure una saletta prove. Mi ricordo che la prima esibizione che feci davanti a qualcuno con la chitarra fu in quell’oratorio. Non ho vissuto quella prima parte della musica come si immagina il rock ‘n’ roll, legato alle droghe, al casino. Però poi questa cosa mi ha aiutato. Non è stato un incontro con la musica negativo, sai? Lo porto dentro come un momento sereno. Questa cosa mi è servita.
Qualcosa di non votato all’autodistruzione.
No, tutt’altro. Per me il rock e la musica è tutt’altro che quello. Poi, ho capito le varie accezioni studiandola e vivendola. Ho capito il potere che può avere questa musica. Ma di per sé, è nata dall’amore verso quella roba che avevo visto su Mtv, quando ho visto Kurt Cobain o più in generale per la musica, appunto.
Poi sono arrivati i Bud Spencer Blues Explosion. Voi siete in due. A me sfugge, ma mi domando: voi siete amici dal principio? Come vi siete incontrati, com’è nata la band?
Conobbi Cesare all’inizio degli anni ’00 perché era amico di amici di fidanzate varie dell’epoca. C’erano questi due gruppi di amici e ogni tanto ci si incontrava per fare delle jam. Nel 2004/2005 sono stato in America un’estate. Vidi The Black Keys. Allora non era conosciuti, almeno in Italia. Quando sono tornato ho detto “cazzo, mi piacerebbe fare la stessa cosa! Lo stesso gruppo, in due che fanno blues, però in italiano”. Fra vari batteristi c’era Cesare. Cercavo un batterista bello, perché per un gruppo è importante anche l’estetica. E lui era perfetto. Inoltre eravamo totalmente in sintonia, soprattutto sul grunge e il rock ‘n’ roll anni ’70. All’epoca era difficile trovare qualcuno con queste influenze: da una parte andavano tanto i tecnicismi, dall’altra il nu metal. Così chiamai Cesare. Abbiamo cominciato e non abbiamo più smesso.
In live e in studio si sente la vostra totale simbiosi. Cosa comporta essere in due individualità che si confrontano? Nella quotidianità dei lavori in corso, come vi comportate?
È partita che io avevo le idee chiare su quello che volevo: un gruppo in due che facesse un determinato tipo di musica. Poi nel tempo abbiamo entrambi imposto le nostre visioni. Io la penso in un modo e Cesare in un altro. Perché un gruppo è così. Altrimenti avrei fatto la carriera solista. E semplicemente ci siamo organizzati in questo modo: l’ultima parola talvolta ce l’ha uno e talvolta ce l’ha l’altro. È un rapporto mediato dalla nostra saggezza (ride). È ovvio che ci sono tensioni, soprattutto quando uno non è d’accordo. Ma il bello dei rapporti è proprio questo: quando si lavora ci sono tensioni, ma poi anche grandi soddisfazioni. Anche a livello umano, non solo lavorativo. Condividere un progetto musicale con una persona che è stata una delle cose più belle che ho avuto nella vita è davvero importante per me.
Come gestite la notorietà? Quanto conta il fatto di essere riconosciuti per strada?
Guarda, ogni musicista, ogni persona che sta sul palco, comunque, un minimo di amore verso il proprio ego ce l’ha (ride). C’è chi più e chi meno. Ci sono poi tante sfumature. Diciamo che noi ci rapportiamo col nostro ego in maniera morbida. Nel senso che se qualcuno ci riconosce per strada, io ne sono felice nella misura che se poi mia mamma mi chiama le dico “Mamma oggi uno mi ha riconosciuto per strada, sai?”. Si parla di piccole soddisfazioni, ma non è quella la cosa, né tanto meno far parte di un film per poter poi vantarsi di quella cosa e poter dire di essere stati dentro a un film.
A proposito di film, siete stati parte del cast di “Cosimo e Nicole” (2011) di Francesco Amato, assieme ai Verdena e gli Afterhours.
È stato interessante far parte di un film di quel tipo, con quel tipo di artisti. È stato interessante stare sullo stesso palco con i Verdena e gli Afterhours e parliamo di un film che comunque è ambientato a Genova nei momenti più difficili. Queste cose dipende pure un po’ da quale punto di vista le vedi. Quando non sei più emergente e sei emerso, e quindi la gente un po’ conosce il tuo gruppo, non significa che sei arrivato da nessuna parte, né tantomeno che stai su un podio. È solo presa di coscienza che quello che fai è piaciuto a qualcuno e che quindi hai anche la responsabilità di farlo ancora meglio. Abbiamo questa responsabilità. A noi alla fine interessa la qualità della musica.
Diceva Samuel Beckett riguardo a “Finnegans Wake” di Joyce: “qui forma è contenuto e contenuto è forma” e se funziona questo, sì, è arte.
Ma più che altro, sei soddisfatto di quello che fai perché quello che fai è curato in tutti gli aspetti. Ecco: si parla di cura verso quello che stai facendo.
Arriviamo a “Vivi Muori Blues Ripeti”, ultimo disco dei Bud Spencer Blues Explosion. Ci sono stati cambiamenti importanti nella sua realizzazione?
Rispetto agli altri, questo è un album che è venuto da sé. Non era preventivato. Venivamo fuori dal 2014, da un tour di un miliardo di date e tantissimi viaggi. Esperienze belle, meno belle e tutta una serie di cose che tutti i gruppi vivono. Quindi eravamo arrivati anche un po’ saturi e ci siamo fermati a riprendere energie. Io ho fatto un disco, Cesare ha lavorato con altri musicisti. Dopo un po’ ci mancavamo. Abbiamo cominciato a vederci e a registrare tutte le jam che facevamo per un anno e mezzo senza fermarci. Eravamo fomentati dalle cose che uscivano e dal fatto stesso che suonavamo. Non abbiamo fatto altro con piacere e passione che riascoltare le cose registrate, fermare quelle che ci piacevano e tentare di farle diventare sempre più simili a noi.
Cosa avete fatto quando avete capito che il materiale era quello giusto? Com’è stato registrare l’album in analogico?
Abbiamo messo insieme un certo quantitativo di musica, intorno alle 25 sessioni, e abbiamo provato anche a cantarle. Io nel frattempo sono diventato amico di alcuni artisti di cui ero fan, come Umberto Maria Giardini e Davide Toffolo. Gli ho chiesto di darmi una mano a scrivere i testi. Loro mi hanno aiutato e alla fine ci siamo detti: “Ma sta roba sembra un disco, facciamolo uscire!“. E l’abbiamo registrato. La cosa bella e diversa è averlo fatto senza ripensamenti. Quando registri un disco in digitale, se sbagli puoi sempre rimediare. Quando registri su un nastro, lo rovini. Ti innervosisci perché il processo è più lungo. Alla fine siamo arrivati forti di una coscienza dei pezzi diverso rispetto ai lavori passati. La forza di “Vivi Muori Blues Ripeti” sta nel suo essere cotto e mangiato. È diretto, sereno. Non ammicca, non ha velleità. Basta a stesso.
Nel momento in cui lo avete sostenuto col tour ci sono stati stravolgimenti?
Dal vivo siamo in quattro. Per rifare l’album fedelmente dovevamo suonare tutti gli strumenti che abbiamo suonato nella registrazione, e quindi c’erano altri due musicisti. E questa è stata un’altra ventata fresca perché suonare con altre due persone sul palco ha rafforzato ancora di più il concerto. E infatti questi credo siano i live più curati che abbiamo fatto da quando esistiamo, quelli che ci hanno soddisfatto di più.
Quando suonate i pezzi vecchi siete in due. Siete molto strutturati, quindi, quando suonate live?
Sì, sì. Dal vivo noi non siamo come i Pearl Jam che cambiano scaletta ogni sera. Noi stiamo più tranquilli, abbiamo una scaletta e facciamo quella.
Avete viaggiato e siete stati anche all’estero. Cantare in italiano influenza in qualche modo quello che voi pensate possa essere l’impatto sul pubblico?
Se canti in italiano, hai più probabilità di essere capito di più in Italia. Sai bene che l’Italia non è il posto più ferrato su certi generi musicali. Agli italiani piace molto un certo tipo di musica. Più popolare, più melodica, più semplice. Noi facciamo cose un po’ più elaborate.
Sì, e capisco di cosa parli. Capovolgo la domanda: se ad esempio cantaste in inglese, credi che in Italia avreste lo stesso successo?
No, non credo proprio. In Italia se canti in inglese ti precludi tante cose. Questo è sicuro. Io per esempio ho avuto la fortuna di lavorare con The Niro, un cantante italiano che cantava in inglese. E lui ha fatto tantissime cose importanti, però le ha fatte con difficoltà rispetto a quello che è invece un progetto in italiano.
E a voi, piace cantare in italiano (rido).
Se fossi stato madrelingua e non fossi stato ridicolo, avrei cantato in inglese. Ma ognuno ha il proprio posto. Se gli artisti africani cantassero in inglese la loro musica, non sarebbero presi sul serio. Invece guarda Bombino o Daymé Arocena, che vanno a suonare in tutto il mondo. Cantano nella loro lingua madre senza problemi. Musica e voce sono la stessa cosa. Se uno fa buona musica, può essere fruita ovunque. Se uno si lega al testo, allora ti fa l’effetto dei cantautori tedeschi, dal canto meno musicale perché la lingua è più ostica. I Verdena cantano in italiano, ma hanno melodie vocali liquide che possono essere ascoltate ovunque e da chiunque, talmente è bello il suono. In Italia siamo molto legati ai cantautori e alla scrittura dei testi che abbiano un senso. Il senso è più importante della musica e della musicalità. È un limite tutto italiano.
Io sono d’accordo in toto. Questo discorso era in effetti la mia premessa alla domanda. Volevo sapere come la vivevate voi e capisco che siete in pace con voi stessi.
Sì. Sappiamo che funziona così. A noi interessa la comunicazione attraverso la musica. Non c’è dietro chissà che messaggio. A noi interessa che quello che facciamo possa essere capito da tutti. Il disco nostro è un disco per il mondo e non per l’italia. Questa è la premessa iniziale.
Dal momento che l’hai citato: tu non solo hai lavorato con Bombino, ma anche con la cantante maliana Rokia Traoré. Mi domando se c’è qualcosa che ti lega particolarmente al continente africano o alla musica africana.
Sicuramente un rapporto di gratitudine! Nel senso che da quelle parti va tutta la musica che ho ascoltato io e quindi trovo un sacco di cose interessanti che vengono da là. Credo che tante cose della musica futura arriveranno da lì. E questo già lo pensavo dieci anni fa.
Invece, relativamente ai progetti paralleli rispetto al gruppo: so che Cesare ha collaborato con Kento. La musica rap fa parte dei vostri ascolti?
Sì, sì. Noi siamo proprio cresciuti con quella musica. Siamo sempre stati vicini a quel movimento, sia per attitudine che per tematiche.
Qual è il concerto cui non vorreste mai rinunciare oggi?
Guarda, io vado a vedermi Jack White a Varsavia a ottobre e Ry Cooder a Parigi. E questi qua sono due concerti che sogno di vedere da tempo e che consiglio a tutti.
Ti sto trattenendo parecchio e me ne dispiaccio, però vorrei farti un’altra domanda. Qual è il rapporto tra arte e vita? Come lo vivi tu nella quotidianità, sapendo che sei un artista? Intendo: come fai coincidere la presa di coscienza che lavori con delle materie prime che non sono comuni, ma che pure fanno di te un individuo dentro la collettività del quotidiano. Come si fa?
Sai, è un po’ astratta la cosa. Cambiano molte cose. Cambia il concetto di “casa” di “famiglia”, di “lavoro”. E quindi bisogna strutturare tutto in un modo più morbido rispetto a quello che ho avuto come esempio. E poi, bisogna avere la fortuna di incontrare persone che condividano con te questa visione della vita, che è molto particolare e che a volte è un po’ egoistica. Con queste premesse, è una vita meravigliosa. Nel senso che avere come unico problema, oltre al pagare le bollette e tutti i cavoli di una vita normale, quello di dover scrivere una canzone, di dover avere la chitarra in mano tutto il giorno, diciamo che mi rende una persona abbastanza felice. Però, ti ripeto che noi siamo felici anche con poco. Non intendiamo la musica come successo o fallimento. A noi ce piace sonà. E fare cose di qualità.
Questo comporta una certa responsabilità, non trovi? Rispetto a come stanno andando le cose, ad esempio, nella società, nel mondo.
Il mondo ha preso una direzione. Il mondo e la società e gli esseri umani hanno preso un andazzo di un certo tipo che secondo me è bello. Però, da un lato, devi anche essere pronto a saper rinunciare a delle sicurezze che nel passato avevano contribuito a creare la cultura o la comunicazione o il concetto di qualità. Se uno riesce a stare al passo con i tempi con queste cose, va bene secondo me. L’unico problema è appunto il saperci stare, il saperlo vivere nella maniera giusta. Il lavoro di un musicista non è solo suonare. È anche saper vivere i propri anni, contestualizzati negli anni dell’essere umano, della civiltà che sta vivendo, del periodo storico che sta vivendo. Questo è fondamentale.
Però c’è anche un aspetto cupo in questi tempi. Per me è fondamentale la messa in discussione di sé attraverso la fruizione dell’opera d’arte.
Una persona deve fare musica con i tempi che vive. Questa è la migliore musica che può fare. Noi pensiamo che un obbligo di un artista sia quello di vivere con i piedi ancorati per terra, ma con la testa in mezzo alle nuvole e farlo continuamente. Vivere con la tecnologia, con le modalità di comunicazione diverse e modalità di fruizione diverse della musica è in un certo modo anche quello un avere una sensibilità artistica. Perché uno potrebbe puntare i piedi e dire: “Io voglio fare solamente i dischi in vinile”. Così però ti precludi la comunicazione. Fare musica significa anche essere aperti a parlare a tutti. Un artista che fa musica indie/pop italiana e poi va a fare Sanremo, secondo me, fa la scelta migliore che può fare perché comunica con la tipologia di pubblico più giusta per lui.
Con le tecnologie di oggi, poi è più facile.
Un artista oggi ha anche altre opportunità: il comunicare tramite Instagram, tramite i computer, lavorare senza affittarsi uno studio, lavorare da casa con la propria scheda audio, scrivere e parlare anche di queste tematiche qui, piuttosto che parlare sempre delle solite cose. Cambiano proprio i vocabolari, cambia il valore di musica. Se la musica era prima quella cosa che se nei periodi d’oro del pop uscivi con un disco, vendevi e guadagnavi i miliardi e ti compravi la Porsche, la Ferrari e le ville, oggi no. E quindi, probabilmente, cambia anche il peso della musica, ma questo non è un male. Semplicemente è che il mondo sta cambiando e bisogna esserne felici.
Certo. Ma ecco, benvenga il progresso, ma poi tutto sta alla coscienza e senso critico delle persone…
Guarda, se ti capita, leggi questo libro. Si chiama “I Barbari” ed è di Alessandro Baricco. Parla di queste cose. Proprio di quando i libri si vendevano di meno perché c’era l’avvento di internet, gli e-book, le modalità di fruizione della lettura diversa. Se alla parola libro ci metti la parola disco, è la stessa cosa. Ed è molto interessante. Tra l’altro, me l’ha consigliato Simone dei Colle der Fomento.
A questo punto, però, mi è sorta una curiosità: Cosa pensi dei Talent?
Ma vedi, penso che anche queste cose qui facciano parte del grande cambiamento. Io, se fossi stato un diciottenne non avrei scelto di fare i talent. Io, Adriano. Perché mi vergogno. Quel tipo d’esposizione non fa parte di me. Devi avere talento per poterti rapportare con quel tipo di medium. Io sto bene con una chitarra in mano a suonare dal vivo. Lì, sicuro che posso dare un’emozione. In televisione, con quella modalità lì, no. Non sarebbe giusta per me. Io credo chi se la senta, chi abbia le palle e anche un po’ la testa per sostenerla, lo possa fare. La testa, perché un artista ignorante non ce lo vedo a partecipare a un talent. E questo perché lì è un posto dove devi mostrare altre virtù e non solamente la musica. Questo secondo me. Credo che per riuscire lì, devi essere un artista a tutto tondo. E chi ha queste caratteristiche, secondo me, può farlo tranquillamente.
Già. Peccato che a me non pare sia proprio così.
Sai, è che le cose si fanno. Poi, nel mentre che si fanno, si creano ed è ovvio che ci siano dei tentativi. Se fosse tutto perfetto, lo avrebbero già detto. Adesso, mi sembra sia diventato un qualcosa di abbastanza istituzionale e cosa posso dirti? Vedremo cosa succederà. Vivo con molta curiosità questa fruizione diversa della musica.
Devo dire, Adriano, che da questa conversazione, intuisco che sei mosso principalmente, immagino nei riguardi della vita stessa, dalla curiosità.
Sono molto curioso. Ti dico sinceramente che tante cose della musica italiana credo siano sopravvalutate. E te lo dico per non dire che certi artisti non mi piacciono. Ma è normale. Faccio un certo tipo di musica e certe cose non mi piacciono e basta. Ma ognuno ha i propri gusti, tutto qua.
Allora ti chiedo un’ultima cosa. Giuro. Progetti per il futuro?
Sono segretissimi. Te ne accorgerai tra qualche mesetto. Se sarai curiosa dei nuovi progetti, te lo dico: te ne accorgerai.
Non vedo l’ora! Ti ringrazio Adriano, è stato davvero piacevole parlare con te.
È stato un piacere anche per me.
Ti lascio libero, ma prima ti chiedo di salutare il nostro pubblico come più preferisci.
Allora, saluto tutti i lettori di Music.it con la speranza che leggendo di buona musica possano avere anche i mezzi per poter scegliere ed ascoltare musica interessante!