Davanti al Teatro Trastevere ci sono due figure bianche che armeggiano intorno a una mensa allestita per i poveri. Tante persone si fermano a chiedere se quello che fanno è per la chiesa di San Francesco di Ripa, proprio dietro via Jacopa de’ Settesoli. E invece Francesca Romana Nascè e Alessandra Caputo sono le due attrici che costituiscono una coraggiosa iniziativa teatrale che si chiama Fritto Mistico. Voi non avete fame? Non siete affamati?
Perché Fritto Mistico? Perché scegliere un’assonanza dal sapore nazional popolare?
Francesca: Proprio perché è pop. E il tentativo della nostra operazione è quello di creare un teatro popolare. Un teatro in cui si parli di cose complicate, magari alte, però con uno stile popolare. Decidere di farlo in strada. Come tentativo di avvicinamento alle persone. Perché poi è la ricerca di un pubblico teatrale è sempre più difficile.
Alessandra: È un tipo di teatro che ha origine proprio dal sostrato, dalla realtà. Che parla di figure che attraversano l’umanità. Sono sante, streghe, mistiche, spiriti. E noi pretendiamo di ritrovare la magia nella quotidianità. Anche la frittura di pesce, se mangiata con passione, è sacra. Quando mangi la patatina fritta, gustandola con tutta te stessa, sei sacra. Il nostro sacro è umano, dove umano è quell’essere pienamente coincidente con il dolore, con la rabbia. Ma le emozioni non devono essere buttate lì. Bisogna farne qualcosa. Fritto mistico è anche ricerca di un significato che oltrepassa il mero sfogo. La rabbia, il dolore, diventano santi se finalizzati alla ricerca di qualcosa. Le nostre creature, per quanto sembrino lontane, sono donne del popolo. Abbiamo un pantheon molto ricco, popolato dalla massaia, dalla mamma che dice “copriti che prendi freddo”, dall’ortolana che grida “frutta e verdura”. Quella è magia pura.
Passiamo al biografico. Vi ricordate cosa stavate facendo quando è nato Fritto Mistico?
Alessandra: Io ricordo che prima era nata Romanaccia Martire. O forse la prima era Berenice al Portico. In ogni caso, esistevano già figure di cui avevo scritto che avevo condiviso con Francesca. Ovviamente sempre a metà fra il sacro e il profano. Stavamo vedendo “La Casta Morta” dei Patas Arriba Teatro, lo spettacolo su Kantor, in scena proprio qui, a Teatro Trastevere. Poi una sera bevevamo del vino…
Francesca: Santa Passera! Stavamo bevendo il Santa Passera. Da Bernabei, proprio qui dietro.
Alessandra: Io ho esclamato “Santa Passera sarà la nostra nuova creatura. Santa e passera”. E allora lì ci siamo dette di mettere insieme queste creature. Berenice, Santa Passera e Romanaccia Martire. E là nasce Fritto Mistico. Le nostre folgorazioni sono sempre venute da cose basse che sono diventate alte. Se esiste davvero una differenza tra basso e alto.
Insistiamo ad andare avanti per dicotomie in Occidente…
Alessandra: Questa ossessione è davvero il nostro guaio. Il Fritto Mistico, quindi, nasce dal vino del frusinate…
Francesca: Pensa che qui dietro c’è l’ospedale intitolato a Santa Francesca Romana. Come altra connessione con Romanaccia Martire. Che in modo molto vago è ispirata a Francesca Romana. Anche solo per il nome. Giusto quello in effetti.
C’è la performance ma c’è soprattutto un messaggio universale che vuole arrivare dritto alla sensibilità del pubblico. Perché l’universalità del vostro messaggio dovrebbe essere più convincente se veicolata da figure luminose, laiche e, soprattutto, femminili come le vostre?
Francesca: Perché sono parte di un’umanità che viene considerata ultima.
Alessandra: Nella storia le donne sono le ultime. Il nostro teatro è anche un cercare di indagare il patriarcato e il danno che ha creato con la complicità di tante donne.
C’è complicità della vittima perché certe forme sociali sono ormai state introiettate.
Alessandra: Esattamente. Fa parte della nostra coscienza collettiva considerare la donna come una minoranza.
Suggerisco minorata.
Francesca: Bisogna sottolineare che in quanto donne non solo ci considerano parte di minoranze minorate. Ma in quanto donne siamo il primo diverso dell’umanità. Il primo capro espiatorio che l’uomo maschio ha aggredito è proprio il femminile.
Alessandra: Per me Dio è una Dea. Noi celebriamo la Grande Madre. Non perché odiamo gli uomini. Anzi, non è affatto escluso che un giorno lavoreremo anche con uomini. Noi rendiamo grazie all’umanità celebrando la Grande Madre. È la dea che è sotto a ogni dio. La ringrazio continuamente per ogni parola che scrivo. Ringrazio anche mia mamma.
Siamo tornate all’immanente.
Alessandra: Di nuovo, sempre perché distinguiamo cose che spesso coincidono. Devo l’esistenza di Fritto Mistico alla Dea e alla mamma.
Mi chiedevo, nelle vostre performance esistono solo figure luminose?
Francesca: Assolutamente no. Tutte le nostre protagoniste hanno una trasformazione nell’arco della performance. Forse l’unica a non cambiare mai è proprio Frate Jacopa.
Alessandra: Perché non è conclusa!
Francesca: Sì, ma per ora è l’unica che è sempre lei. Romanaccia, invece, è una di quelle che ha un lato oscuro terribile. E infatti è anche molto divertente da fare. Ma anche Santa Passera. All’inizio è un’ubriacona
Alessandra: Una mendicante, un’attaccabrighe, un’accattona. Una borderline.
Francesca: Molto antipatica. Le ombre vengono sempre affrontate. Romanaccia è affamata di vita. E devastata dai desideri del suo corpo.
Alessandra: Non li sa gestire.
Francesca: Deve affrontare un percorso molto tortuoso, immerso nell’oscurità. Non è luminosa. Ci diventa dopo un battesimo di brodo.
Alessandra: La cosa interessante è questa. Le ombre e la luce non sono così distanti. Se le ombre non sono buttate là ma sono vissute con umanità, diventano l’occasione per brillare. In fondo, sono proprio i nostri aspetti oscuri che determinano la nostra identità particolareggiata. È dai personalissimi blocchi che si forma l’identità dell’anima, per poi farne bagaglio d’esperienza.
Stiamo parlando di elaborazione della crisi, giusto?
Alessandra: Bisogna fare in modo che le ombre siano la nostra forza. Mi definiscono. E possono essere molto molto luminose.
Francesca: Ed è un processo che può diventare collettivo. Quello di cui ci parla Jacopa è l’accoglienza, tutto ciò che viene ritenuto minoranza. Le emarginazioni sono tantissime e di vari tipi: il mendicante, il profugo, l’occupante. Persino gli scioperanti. Quante volte imprechiamo perché il servizio pubblico è in sciopero? Se la complessità la gestisco in modo superficiale, non farò altro che urlare. Ma se penso che gli autisti scioperano perché non li pagano da mesi, allora forse solidarizzo.
Alessandra: La nostra è una ricerca aperta nel cercare di capire le cose difficili del mondo. Gli archetipi, la religione, la spiritualità si fanno strumento per guardare la società contemporanea. È una sfida e non è per nulla semplice. Stiamo facendo esperimenti.
Ben riusciti direi.
Alessandra: Siamo contente per il pubblico.
Di solito che tipo di reazioni raccogliete?
Alessandra: Per ora sono molto coinvolgenti. L’anno scorso abbiamo fatto un ciclo di performance nella chiesa di Santa Passera. Si trova in una parte della Magliana un po’ malfamata. E ci siamo esibite lì. C’era sempre più gente man mano che lo spettacolo prendeva corpo. Ci siamo ritrovate un pubblico che non vediamo mai nelle sale del teatro. Un pubblico di gente reale. Che ha preso quello che gli serviva. Che ha fatto un’esperienza che noi non possiamo immaginare. Il feedback è stato di grande gratitudine. E queste sono le cose che mi fanno venire voglia di continuare.
Roma è un’enciclopedia intera di figure mistiche. Ma in fondo, lo è tutta l’Italia. Se doveste andare a Napoli, in che lingua lo fareste?
Francesca: C’è da dire che come attrice, per fare questo lavoro, ho fatto mia una lingua che mi dovrebbe essere propria. Vale a dire il romano, che io non so.
Alessandra: Chi lo sa, in fondo?
Francesca: Mio padre è napoletano, mia madre siciliana. Quindi a casa si è sempre parlato italiano perché i loro dialetti non sono compatibili. Per me è stata una riscoperta della lingua. Io sono una che non sa nessun dialetto. Invece è importante perché il dialetto è una forma. Fa parte dell’operazione di ricerca e di una ricerca di teatro che sia alto da una parte e molto basso dall’altra. Il dialetto avvicina. Poi abbiamo la fortuna di stare a Roma, con un dialetto che è comprensibile dovunque lo porti.
Alessandra: È anche un po’ una lingua franca. Se dovessimo andare a Napoli… Faremmo sicuro una ricerca sulle divinità del luogo. L’aggancio sarebbe un personaggio interessante. Io credo che una ricerca sul napoletano la dovremmo fare. Senza preoccuparci di farla pulita. Bisognerebbe rendere la lingua del posto una lingua franca. Devo provare a mettermi in comunicazione con te, magari tu mi rispondi anche. Il massimo sarebbe coinvolgere il pubblico in modo attivo. Sarebbe il massimo riuscire a farlo con dei canti.
Spiegati meglio.
Francesca: Ma sì, pensa che bellezza! Stiamo riscrivendo il “Laudato sii mi signore”. La base melodica sarà un canto partigiano. Sono facili da imparare quelle melodie, oltre ad essere molto evocative.
Alessandra: Nel coro poi tutti siamo uno. Certo, non è semplice, e ci vorrà tanta preparazione. Vogliamo che il nostro teatro diventi un’esperienza immersiva fino in fondo
Fatelo, vi prego!
Alessandra: Già portare il teatro in strada significa iniziare a rompere le barriere. Credo che la lingua sia un mezzo. Soprattutto perché noi non vogliamo essere brave. Noi vogliamo fare rete. Vogliamo creare connessioni interessanti, per capire come farcela con le nostre ombre. A quel punto tutti ci mettiamo come risorsa per gli altri, con il teatro come vicolo. Non deve essere un narcisismo, un’operazione estetica. Perché a quel punto non serve a nulla. Fritto Mistico è un progetto di vita che mette in mezzo la realtà quotidiana di ciascuno. Mi rendo conto che può essere presuntuoso…
Io direi ambizioso.
Alessandra: Vero, ma in modo umile. Fritto Mistico ha l’ambizione di far sì che una passione diventi la tua vita. Non come autoerotismo mentale, ma come qualcosa di condivisibile. La mia strada per non essere frustrata, depressa è questa. E la sperimento in relazioni che diventano interessanti e, forse, anche utili. Lo stiamo trasformando in un lavoro.
Siamo in fase di chiusura, purtroppo. Proviamo a tirare le fila con un’ultima domanda. Umanità, sacralità e politica sono le tre dimensioni inscindibili che indagate nel vostro lavoro artistico. Come le legate l’una all’altra?
Francesca: Attraverso dei testi inimparabili (sorride). Scherzi a parte, dietro c’è un lavoro di drammaturgia molto forte. Per cui quando dico inimparabili sto dicendo che quella parola è quella giusta in quel momento. Il nostro è un teatro che vuole essere popolare. Quindi si parte da qualcosa che all’inizio fa ridere perché è buffo, è accattivante e insolito. È come sfogliare una cipolla: solo dopo tanti strati arrivi al cuore. Ci vuole una drammaturgia che abbia molti strati che attorialmente vanno restituiti tutti. Questo è quello che tiene insieme tutto quanto
Alessandra: Per me tutto è tenuto insieme dal desiderio di fare rete, di mettermi in comunicazione, di condividere qualcosa con gli altri. La comprensione che ho trovato con Francesca è stato il primo tassello che mi ha fatto vedere che tutto quello che immaginavo era chiaro. Quindi poteva essere condiviso, e restituito arricchito. Questa cosa mi dà serenità. Ora proviamo a far crescere questa fiammella di desiderio, grazie al pubblico anche.
Serve un destinatario.
Alessandra: Serve a chi dire, a chi comunicare. E per questo dobbiamo ringraziare Marco Zordan e Vania Lai per il coraggio e la pazienza. Gli abbiamo proposto qualcosa che va davvero oltre ogni regola. Per stima e per amicizia hanno detto di sì e ci stanno aiutando. C’è grande gratitudine in tutto questo. Da soli non si va lontani.
Siamo degli animali sociali e politici.
Alessandra: Non possiamo prescindere dalla connessione. Mai!