Ormai terminate le stagioni dei maggiori cartelloni, la danza si fa largo nella desolata landa capitolina, nell’ambito del programma Grandi Pianure, che mette appunto a tema lo sconfinato campo espressivo della danza oggi. “Circeo” parte proprio dall’individuazione di uno spazio di libertà nella geometria istituzionalizzata del palco, privato del limite tra scena e retroscena, sovresposto alla visione nei suoi dettagli meccanici, nei cigolii e nella sua inimmaginabile piccolezza. Un’operazione di apertura dello spazio dunque, e dopottutto il titolo è “Circeo”, non Circe: non la dea, ma il luogo designato dalla tradizione, promontorio magico che per la sua consistenza fisica s’è fatto, post quem, casa del mito. Un paesaggio dunque, ovvero un tessuto di segni in cui non è il mezzo del “character” a veicolare senso, ma un inestricabile palinsesto di natura e artificio, di physis e techné.
“Circeo” non si dà allo spettatore come evento, ma come l’esperienza di un’apertura primigenia che presiede, ovvero contiene lo svolgersi del mito. Quest’anteriorità si connota in gesti e presenze tribali, nell’animale-vello che riappare, nel globo lapideo, nei suoni viscerali, nel fumigare primordiale tutt’intorno. Ciò si svolge entro la tensione dipolare fra la compagine dei sette danzatori, focalizzata nei movimenti a centro palco, e i due performer ai margini del vuoto scenico, che si muovono innescando meccanismi di contrasto elettrizzante: fumo, bagliori, arnesi perturbanti, coperte termiche, mescolati in lente sequenze che riquadrando la macro-dinamica centrale. Quest’ultima è articolata su entrate e uscite di palco che ricordano il fluttuare di corpi consenzienti sull’ondulante inclinazione di un ponte navale. Resta impressa la forza sinestetica: pare di sentire odore di incenso, di roccia rovente, di fiori vivi e fiori morti, sin dall’accoglienza cinestetica del fumo che investe la platea da prima dell’inizio.
Tanta sensualità è sapientemente bilanciata dalla tavolozza scenografica, virata sui grigi e le terre chiare che sposano latitudini boreali al pre-testo mediterraneo, e soprattutto dal corpo coreografico stesso: una danza sacra, un racconto di paura e orgoglio, abbandono e ritrovamento, di parole tracciate leggermente che conferiscono alla partitura un senso di necessità a forza di grazia. Il simbolo scenografico che trattiene le parti in causa è efficace: una vela mossa dal vento dei corpi in azione, ampia come l’orizzonte scenico, intralicciata ad un montante che cala proprio come un albero navale. L’apparato scenico è così una metafora reale, in quanto è la nave una portatrice materiale di corpi. Qui traspare, forse senza volerlo, la cronaca degli sbarchi: “Circeo”, dopotutto, è approdo maledetto per tutti, è una terra magnifica ma la sua ricchezza è veleno, trasforma in animali e imprigiona. Di notevole impatto anche la colonna sonora, con vulcaneggiante basso continuo di Daniela Cattivelli che dà l’impressione paradossale di un magma che erompe nel ghiaccio, oltre a prestiti dai Mountains, dai Sigur Rós, da Alex Somers, da Windy & Carl.