Il giovanissimo Francesco Ragosta, regista di “Clown-destini”, mette per primo piede sul palco, spiegando che tipo di spettacolo sta per essere messo in scena. Bacchetta l’ignoranza che oscura il teatro italiano, sia dal punto di vista della produzione che della ricezione, per quel che riguarda il clown, considerato come un animale da circo, buffo, che strappa risate grasse e sguaiate. Per quanto mi riguarda, i clown sono tutti parenti di Pennywise, il mostro di Stephen King, quindi mi fanno paura. A ognuno il suo.
Sarà la scelta del trucco, che oltre al fondo bianco, prevede che tutti gli attori abbiano una posticcia “barba” grigioazzurra, dello stesso colore delle ombre sugli occhi, ma quel velo di inquietudine che i clown restituiscono insieme al sorriso è stato smorzato.
I ragazzi di Post-it 33 hanno preso di petto la clandestinità, tema scottante del dibattito politico odierno. Hanno dimostrato con successo che la satira semplifica e banalizza più di una pantomima afasica. Al linguaggio corporeo perdoniamo la sua ambiguità, sopravvalutando la chiarezza e la trasparenza di quello verbale.
L’allestimento del palco di “Clown-destini” è molto semplice: un cartello stradale per le indicazioni di percorso, uno per il divieto (di esistenza e) di circolazione per i nasirossi nel paese dei nasibianchi. I tipi umani sono tratteggiati con ironia, sagacia e ingenuità.
Con i corpi dei “Clown-destini” abbiamo sorriso – chi un po’ troppo, ma vabbè – e abbiamo trattenuto il respiro nei momenti di tensione. Abbiamo riflettuto.
È sempre un peccato che dal grottesco connaturato alla tipologia rappresentativa il pubblico riesca solo a ridere e applaudire sguaiatamente. Soprattutto perché la pantomima di “Clown-destini” è stata piacevolmente sobria nella sua potente energia comunicativa.
L’intuizione di Francesco Ragosta, che ha fondato lo spettacolo, è stata geniale ed elementare al contempo. La metafora clownesca è potente e toccante nel suo stare per la condizione liminare del migrante. Ogni dubbio simbolico si scioglie nell’ammissione di riuscire a perdonare l’inadeguatezza comportamentale ai bambini, ma non agli adulti.
Chi meglio di un clown rende visibili le difficoltà di una simbologia sociale differente? Chi meglio di un clown, perché fisicamente adulto e comicamente infantile, riesce ad abbattere ogni ambiguità nascosta dietro a sofismi retorici, restituendoci la facoltà di chiamare le cose col proprio nome. Fame, solitudine, disperazione, spaesamento e paura sono solo alcuni dei lemmi spogliati di ogni “però”.
“Clown-destini” ha efficacemente mostrato che sotto abiti sociali diversi si cela la stessa umanità, prima ancora che disumanità. È un lavoro equilibrato, quello portato in scena dalla compagnia Post-it 33. Con i loro corpi abbiamo sorriso – chi un po’ troppo, ma vabbè – e abbiamo trattenuto il respiro nei momenti di tensione. Abbiamo riflettuto. Probabilmente in tanti hanno chiesto scusa per le occasioni mancate di riconoscere l’umanità, del prossimo e dello straniero.