COLPA: "Bisogna essere curiosi, bisogna ascoltare. È importante per crescere"
Il rapper sardo Colpa, pseudonimo di Marco Meloni in una foto di Nicolò Montis
Il rapper sardo Colpa, pseudonimo di Marco Meloni in una foto di Nicolò Montis

COLPA: “Bisogna essere curiosi, bisogna ascoltare. È importante per crescere”

Diamo un caloroso benvenuto su Music.it al rapper Colpa! Per sciogliere il ghiaccio, racconta ai nostri lettori un aneddoto imbarazzante sulla tua musica che non hai mai rivelato ad anima viva!

Ciao a tutti! Fammi pensare… Con i Lyrical Dropperz abbiamo aperto i concerti di Fedez e J-Ax al Mondo Ichnusa, era il 2015. Un quarto d’ora prima di salire sul palco sono entrato totalmente nel pallone. Non mi ricordavo i testi di nessun pezzo! Allora mi son fatto spazio tra gli altri artisti e mi son messo in un angolo. Ho iniziato a girare in tondo ripassando tutte le canzoni in scaletta. Più o meno fino al secondo prima che ci chiamassero. Sembravo un pazzo!

Ti è servito alla fine? Sei riuscito a ricordati tutto?

Sì! Alla fine ricordavo tutto. Ma sono entrato nel panico. Era un pubblico molto importante. Forse c’erano cinque o diecimila persone sotto il palco.

Hai interagito anche con i “big”?

Dopo il live, con J-Ax. Io e gli altri componenti dei Lyrical Dropperz siamo riusciti a fare quattro chiacchiere con lui. Dj Skida si è fatto firmare un vecchio vinile degli Articolo 31. Io ho intravisto anche Fedez, ma era intento a parlare con la sua crew. Tra l’altro discorsi curiosi: note, scale, linee vocali, interpretazione. Era molto interessante, mi son messo a origliare.

Bisogna anche carpire i segreti degli altri musicisti, no?

Assolutamente. Bisogna imparare dai più grandi. Bisogna essere curiosi, bisogna ascoltare. È molto importante per crescere.

Partiamo da te. Chi è Colpa? Dove inizia il rapper e finisce Marco?

Difficile a dirsi. Anche perché in apparenza la mia vita e la musica che faccio sembrerebbero due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai. Mi sto per laureare in Medicina. Ho iniziato a fare musica poco prima di entrare all’Università, ed è stato molto difficile far conciliare queste due vocazioni. Quando le persone scoprono cosa c’è nel mio futuro, rimangono sorprese. Eppure sono sempre io, sia col camice che con la bandana. Non cambia chi sono.

Potresti essere il primo rapper ad avere il titolo di Dr. anche sulla porta dello studio, oltre che sulle copertine!

Sicuramente non sono l’unico studente di Medicina che fa rap, o musica in generale. Mi piacerebbe riuscire a conciliare questi due aspetti in maniera innovativa. Dimostrare che si possono seguire entrambe le strade. E magari affiancare un lavoro serio come quello del medico alla grande passione per la musica. Anche se si tratta di un genere su cui ci sono ancora tanti pregiudizi, come il rap.

D’altronde c’è ancora almeno una generazione che guarda al rap come una musica di poco valore.

Molti pensano che il rap sia per ragazzini. Il rapper fa una musica che non suona alle orecchie di chi non si è mai preso la briga di approfondirla. Spesso ti trovi a combattere con persone che pensano che tu non sia abbastanza serio, solo per lo stile che adotti o i brani che fai. Forse quando riuscirò a unire il medico e il rapper, potrò dimostrare alle persone tutto l’impegno, la dedizione e lo studio che ci sono dietro la mia musica. Queste due realtà possono coesistere con la stessa serietà.

E poi vuoi mettere quanto sarebbe figo fare freestyle in reparto?

Potrebbe essere un modo per avvicinarsi ai pazienti! Quando indossi un camice e stai dietro una scrivania, spesso si crea un enorme distanza con la persona che devi aiutare. Il rapporto tra medico e paziente dovrebbe ruotare intorno all’empatia, a un tipo di umanità che potrebbe essere preso in prestito proprio dal mondo dell’arte.

Forse il rap può essere la terapia per entrare in sintonia con i paziente.

Potrei iniziare a scrivere le ricette in rima! O, più praticamente, riuscire almeno a portare la spensieratezza del rap nel mio lavoro. È una professione che rischia di farti dimenticare cosa significa essere umani. Se riesci a creare una connessione empatica con il paziente, riesci ad aiutarlo in maniera più efficace.

C’è stato un momento in cui hai pensato di abbandonare il rap e diventare una… persona seria?

È stato proprio all’inizio della mia carriera universitaria. Leschio e Haste, i miei compagni dei Lyrical Dropperz, mi hanno convinto a non demordere. Volevano continuare a fare musica e farla bene. Mi hanno detto di prendermi il mio tempo, ma non abbandonare questa passione. Mi hanno dato la carica, e da lì non ho mai più avuto dubbi. Sul rap come sulla medicina. Sono parti di me, e non potrei mai lasciare indietro uno o l’altra. Forse qualcuno mi accuserà di denigrare la figura del medico, ma son sicuro che riuscirò a unire queste due anime.

Ma facciamo un passo indietro. In che momento una persona decide di diventare rapper? Com’è nata questa esigenza?

Io vengo da un altro mondo musicale. Sono cresciuto ascoltando rock e metal. Ho sempre amato i KoRn e i System of a Down, che hanno un modo di fare musica particolare. I KoRn hanno praticamente inventato il nu metal. Che poi è un genere molto vicino al rap. Nei loro brani e in quelli dei System of a Down ricorre una ritmicità particolare. Hanno un modo diverso di usare le parole e scandirle. Poi ho iniziato ad ascoltare 2Pac e i grandi della West Coast americana. E anche in quel caso sono rimasto affascinato dall’utilizzo della parola.

Così hai deciso di iniziare a fare rime?

È nato tutto per caso, come un gioco. Stavo ascoltando una canzone di Bruno Mars. Ho messo in loop un pezzo del brano che era solo strumentale. Ho buttato giù un testo e, nonostante fosse stupidissimo, ho scoperto di riuscire a scrivere usando la metrica. In quel momento le radio stavano iniziando a passare la nuova ondata di rap italiano. Ho pensato “Ehi, riesco a farlo anch’io!”. Allora è iniziata una sfida personale. Volevo dimostrare di essere il più bravo.

Ci sei riuscito?

Sì, ora penso di essere bravo. Ci vuole tanto allenamento per riuscire a scrivere in versi ciò che senti, usando una buona metrica. All’inizio i miei testi erano molto tecnici. C’era un messaggio profondo e usavo parole forti, ma mi focalizzavo tanto sulla tecnica. Dopo ho iniziato a fare anche pezzi più leggeri e divertenti, integrando anche linee vocali più cantate e distanti dal rap classico. Ma in principio avevo solo una missione: diventare il migliore.

È raro che qualcuno lo ammetta. Generalmente gli artisti ti parlano dell’esigenza di voler comunicare il proprio mondo interiore.

Avevo l’esigenza di usare la voce per esprimermi, questo senza dubbio. Però il motore scatenante del mio rap è stata proprio questa sfida. Volevo dimostrare di essere bravo anch’io, di poter fare anch’io quello che sentivo in radio.

Oggi quanto metti di te stesso in ciò che scrivi? Qaunto c’è di Colpa e quanto di Marco nei tuoi testi?

Quando scrivo un testo vado a pescare nelle mie esperienze, nella vita reale. È raro che inventi qualcosa da zero, a meno che non si tratti di un brano leggero, scherzoso. A volte per fare giochi di stile e trovare le punch line più divertenti ti distacchi un po’ dalla realtà. Ma in generale cerco di portare nelle mie rime le sensazioni che provo. Ciò che capita nella vita ti fa provare emozioni, sentimenti e ricordi. Io li metabolizzo, e alla fine diventano le frasi delle mie canzoni. A volte bastano poche parole per evocare delle immagini anche molto complesse.

Quanto è importante avere una crew, fare gruppo nel mondo del rap?

È davvero molto importante! Da soli è difficile crescere. È bello interagire con persone che hanno la tua stessa passione e il tuo stesso sogno. Compagni che credono nella musica che fate. Ti permette di maturare, di capire i tuoi errori. E poi anche a livello materiale è più facile fare musica. Da solo avrei dovuto girare decine di studi per registrare. Fare gruppo invece ci ha permesso di essere indipendenti.

Il grande vantaggio di avere una crew è quello di avere diversi specialisti al suo interno, no?

Nella nostra crew ci sono mc, produttori, videomaker, fotografi. Alcuni li abbiamo trovati strada facendo, ma anche con loro è nato un rapporto di stima e amicizia. Si lavora meglio quando con le persone si stringono anche rapporti umani, oltre che professionali. L’idea di stare in una squadra è bellissima. Ho sempre ferito gli sport di squadra. Hai la certezza di fare un percorso con qualcuno, di condividere le tue esperienze con i tuoi compagni.

Immagino non sia sempre tutto rose e fiori però…

Spesso ci sono scontri. Ognuno ha le proprie idee e i propri tempi, e bisogna trovare un equilibrio. Poi si può scegliere di non scendere a compromessi. Noi ci siamo sempre venuti incontro, senza però annullare noi stessi. Lo si fa per il bene della squadra, per rimanere uniti e continuare insieme.

Ovviamente ora ti stai riferendo a Zero Nove. Come sono nati invece i Lyrical Dropperz?

Il progetto è nato casualmente. Stavo iniziando a fare i primi pezzi. Ho conosciuto Leschio, e anche lui stava facendo i suoi primi pezzi. Stavamo entrando entrambi nel mondo del rap, ed era bello confrontarci. È nata una bella connessione mentale. Ci siamo trovati soprattutto sul fatto di voler fare le cose in grande, in maniera professionale. Eravamo entrambi disposti a fare tanti sacrifici e impegnarci. Successivamente è arrivato Haste, che ci ha contattati tramite la pagina Facebook che avevamo aperto per farci conoscere. Anche con lui ci siamo trovati bene, e fondare un gruppo è stata una cosa naturale.

Così i Best One sono diventati ufficialmente i Lyrical Dropperz.

Esatto. Abbiamo fatto uscire un mixtape, “09126”, e ha iniziato a girare tanto. All’epoca non c’erano tante crew o tanti gruppi. Penso abbia fatto successo anche per questo. Eravamo tre rapper con tre stili e tre caratteri diversi. Tre modi di scrivere differenti. Si è creata un’alchimia davvero interessante.

E da lì sono iniziate le vostre esibizioni.

Abbiamo iniziato a fare live nei club di Cagliari e partecipare a diversi contest. Alcuni ci hanno aperto la via a dei palchi molto importanti. Tra cui l’Univercity e il Mondo Ichnusa. Abbiamo aperto un concerto di Salmo. In quegli anni abbiamo fatto tanto! Poi è entrato ufficialmente nella formazione Dj Skida, e abbiamo trovato un nuovo equilibrio.

Dopo tutta la gavetta in compagnia, come è arrivata la voglia di metterti in gioco da solo?

Con i Lyrical Dropperz ho avuto modo di sperimentare il mondo dell’hip hop old school. A un certo punto non riuscivo più a scrivere. Mi sentivo chiuso negli standard del rap classico, mentre fuori arrivava tutta un’ondata di artisti new school e poi la generazione della trap. Avevo perso l’ispirazione, costretto nel tecnicismo e nelle basi che facevamo. Nonostante la diffidenza iniziale, mi son fatto contaminare dalle nuove sonorità che sentivo. Così ho iniziato a usare la mia voce in modo differente, aggiungendo anche melodie alle mie rime. Oltre alla parola, ho scoperto l’importanza del suono.

E così è nato l’EP “Intro”…

“Intro” è stato l’ingresso di Colpa nella nuova wave musicale. C’è stato un cambiamento netto tra il modo in cui scrivevo prima e il modo in cui ho scritto questo EP. Forse ci sono meno contenuti, perché il mio obiettivo era cambiare metrica, cambiare il flow. E ho scoperto che mi piace cantare e fare armonie. Ora che la sperimentazione è finita, e ho preso le redini di queste nuove sonorità, ho finalmente modo di reintrodurre anche i contenuti. Posso riportare nella mia musica ciò che ho dentro.

Del panorama attuale, con chi vorresti collaborare? Chi ti ispira?

Io ascolto poco rap italiano. Sono molto contento di vedere artisti che valgono arrivare in alto. Mi riferisco a Tedua, Rkomi, Ernia, Izi. Scrivono molto bene, evocano immagini con le loro parole. Riescono a essere anche molto introspettivi. Ammiro tanto Post Malone. Vorrei fare ciò che fa lui. Canta e crea melodie bellissime, e solo con quelle riesce a dare emozioni. Comunque rimango molto ancorato al mondo da cui sono partito. La mia fonte di ispirazione principale rimangono i System of a Down.

Perché proprio loro?

Mi piace il loro mix di follia, rabbia e malinconia. Sono elementi che caratterizzano tutte le loro canzoni. E anche delle mie!

Come vedi la scena sarda in questo momento?

Sta attraversando un momento di passaggio. Prima gli artisti riuscivano a uscire a livello nazionale. Ora chi ci ha provato, senza risultati, è tornato alle origini. Almeno a Cagliari, noi Zero Nove siamo tra i più attivi. La scena non è unita. Tutti cercano di curare il proprio orticello, manca la volontà di creare connessioni. Però ci sono davvero tanti talenti, in tutta la Sardegna. Stiamo cercando di creare una rete che raccolga tutti questi artisti. Oggi mi sento un protagonista della scena cagliaritana e della scena sarda. È importante far sentire la propria presenza, e farlo puntando alla qualità, non solo alla continuità.

Immagino sia necessario anche uno sforzo economico.

Bisogna investire nella propria musica, credere in te stesso. Ci vogliono soldi per fare prodotti di qualità. Noi abbiamo deciso di puntare sempre in alto, con strumentazioni professionali. E curando anche l’aspetto promozionale con video all’altezza.

Una tematica che ricorre spesso nel rap, e anche in alcuni tuoi pezzi è proprio il cash.

È un argomento di cui è facile parlare. Tutti quelli che si impegnano e fanno musica vorrebbero vedere un riscontro economico. Non è molto poetico, ma viviamo in un mondo che gira in funzione dei soldi. Ormai non puoi definirti artista se non guadagni con la tua musica. Ma io non ho mai dato importanza al denaro. Forse sbagliando. Se produci un pezzo pensando a guadagnarci, fai determinate scelte. E magari poi riesci anche a fare soldi.

Se domani ti chiamasse il capo di un’etichetta dicendoti: «Ciao Colpa, ti diamo fondi illimitati, ma sei obbligato a fare le canzoni che diciamo noi», cosa faresti?

Innanzitutto chiedere per quanto tempo. Se fosse un progetto a breve termine, accetterei. Potrei scendere a questo compromesso per raggiungere una quantità di denaro accettabile per investire successivamente nella mia musica. Non lo farei a tempo illimitato.

Non avresti paura dello stigma, di essere etichettato come quello che fa solo tormentoni?

Tanti cantanti da tormentoni poi hanno proseguito in maniera intelligente. Hanno capito che al pubblico generalista piace un tipo di musica più leggera, e hanno deciso di approfittarne. Hanno fatto successo, e quelli più furbi e bravi sono riusciti a investire la fama guadagnata in musica più impegnata, o comunque più affine alle loro idee. È comunque un modo di farsi conoscere da un ampio bacino di ascoltatori, tra cui quelli che potrebbero continuare a seguirti.

Torniamo nel mondo reale. Quali sono i progetti futuri di Colpa?

Finalmente posso dare spazio alla mia musica. C’è molto più di me nei pezzi che stanno uscendo. Finalmente ho imparato a sfruttare i nuovi beat con cui sto lavorando. Giovedì scorso è uscito il primo pezzo di questa nuova era. Ogni mese pubblicherò un nuovo singolo. Alcuni saranno accompagnati da un video.

Ci puoi dare qualche anticipazione su questa nuova fase?

In realtà sto preparando un vero e proprio EP. Ci saranno testi molto più profondi delle mie tracce da solista che avete sentito finora. E ci saranno collaborazioni molto interessanti, anche con artisti internazionali. Saranno featuring fatti in virtù della musicalità della loro lingua. Ma non posso dirti altro! Se non che tutti i pezzi avranno quel pizzico di follia, di rabbia e malinconia di cui abbiamo parlato prima. Uscirà finalmente anche Marco, insieme a Colpa.

Colpa, a questo punto non ci resta altro che ascoltare i tuoi nuovi singoli. A nome di tutta la redazione di Music.it, ti ringazio per questa bella intervista. Incrociamo le dita per te!

Grazie a voi! Mi son divertito un sacco a rispondere a queste domande. Saluto tutti i lettori del sito. A presto!