Diventato famoso a livello internazionale nel breve spazio di due lungometraggi, Sebastián Lelio è entrato a far parte della schiera di registi latinoamericani che hanno infranto il confine linguistico approdando al cinema d’autore in inglese. La forza dei due film precedenti era basata sull’esperienza vissuta dal regista e dai suoi attori. Una potenza esplosa col radioso “Gloria” (2013), incentrato sulla ritrovata sessualità di una sessantenne divorziata. E poi ribadita da “Una donna fantastica”, vincitore quest’anno dell’Oscar come Miglior Film Straniero e che ha offerto uno sguardo autentico sull’amore tra un uomo e una transessuale. Quando avveniva la premiazione dall’Academy, “Disobedience”, adattamento personale del romanzo di Naomi Alderman, scritto dallo stesso regista e da Rebecca Lenkiewicz (sceneggiatrice di “Ida” di Pawel Pawlikowski), era già in fase postproduttiva. Si tratta ancora di un percorso femminile verso l’accettazione e l’autorealizzazione, stavolta costantemente obbligato in percorsi di sofferto realismo.
Dal momento in cui per la prima volta vediamo i tre vecchi amici di “Disobedience” insieme in cucina, intuiamo che tra loro ci sono segreti e sentimenti rimasti sepolti per anni.
Ronit (Rachel Weisz), Esti (Rachel McAdams) e Dovid (Alessandro Nivola) sono tre amici cresciuti in una comunità ebraica ortodossa a nord di Londra. Ma è successo qualcosa che ha costretto Ronit a rinunciare alla sua fede e lasciarsi alle spalle gli amici e il padre, il rispettato rabbino della comunità. La donna si trasferisce a New York dove diventa una fotografa di successo. Molti anni dopo, Ronit viene a sapere della morte del padre, e decide di tornare in Inghilterra. Ma nonostante sia l’unica figlia del rabbino, Ronit non si sente la benvenuta quando si presenta a casa di Dovid, dove la comunità è riunita per la shiva. Anche l’accoglienza di Dovid è fredda, e sembra stupito del suo ritorno. Alla fine, l’uomo invita Ronit a rimanere con lui e la moglie: Esti.
Dal momento in cui per la prima volta vediamo i tre vecchi amici di “Disobedience” insieme in cucina, intuiamo che tra loro ci sono segreti e sentimenti rimasti sepolti per anni. Sotto la superficie di apparente realizzazione sia per Dovid, il successore del rabbino, che per Esti, un’insegnante popolare, ribolle un sostrato di infelicità e solitudine che il ritorno di Ronit inizia a far riemergere. Capiremo ben presto che la causa di questa infelicità è legata a un’intensa passione amorosa tra le due amiche. Un legame omosessuale impossibile da accettare per la comunità ortodossa, motivo per cui Ronit era andata via. Mentre queste emozioni riaffiorano, le due donne e Dovid sono costretti a rivedere i propri rapporti, le loro vite attuali, il loro futuro. Inevitabilmente, quest’atto di revisione riguarderà anche la loro fede all’interno della comunità ebraica, lì dove ogni loro azione è guardata con sospetto.
“Disobedience” si focalizza su Esti che, pur essendo attratta solo dalle donne, ha accettato la soluzione propostale dal defunto rabbino.
Quando la comunità ortodossa accoglie freddamente Ronit per piangere suo padre, Sebastián Lelio sottolinea il potenziale deflagrante del personaggio di Rachel Weisz nel far saltare in aria la finta quiete costruita negli anni. In una scena gestita con intelligente ironia, nel mezzo di una cena in cui sono tutti riuniti attorno a un tavolo, la ribellione della donna diventa un’espediente per crepare le ipocrite convinzioni patriarcali. Ronit viene interrogata sul suo essere nubile e sulla mancanza di figli. Così la donna risponde di preferire una famiglia fatta di amici sinceri, piuttosto che rassegnarsi a un matrimonio combinato senza amore. Tanto più disprezza l’idea di essere quella moglie trofeo che la società tanto apprezza. Tutto questo la condurrebbe alla pazzia, tanto da preferire il suicidio a una simile prigione.
Parole dissacranti che dimostrano come non sia la religione di per sé ad essere sbagliata, ma la sua distorsione umana. Quelle persone che applicano i precetti in modo così ridicolo da perdere di vista logiche, ragioni e desideri. Da questo momento in poi, “Disobedience” si focalizza su Esti che, pur essendo attratta solo dalle donne, ha accettato la soluzione propostale dal defunto rabbino: redimersi, sposando quello che effettivamente è un brav’uomo. Il rapporto tra Ronit ed Esti è stato congelato nel tempo. Per entrambe si è fermato nel momento esatto in cui Ronit ha lasciato la sua città natale per l’America. Da qui la loro formazione caratteriale ha preso strade diverse, procedendo a velocità di emancipazione differenti. Eppure, nonostante gli anni, basta rivedersi per capire che nel loro sentimento nulla è cambiato.
I momenti di appassionata disobbedienza tra le protagoniste rapiscono per la loro autenticità. In particolare la discussa scena di sesso al centro di “Disobedience”.
Alla luce di questa presa di coscienza, Esti cade a pezzi, divisa tra imposizioni e volontà. Ama la sua vita, il suo lavoro alla locale scuola ebraica, e ama sinceramente Dovid, marito gentile, amorevole e premuroso. In lei il senso comunitario è forte, e non è capace di rinnegarlo. Per questo sarà Ronit a fare il primo passo, conformandosi e mascherandosi pur di starle vicino. La sua chioma fluente costituisce quasi un affronto alle altre donne. Così, nel goffo tentativo di fingersi un’autentica moglie ortodossa, compra una parrucca e la indossa. Ma è un inutile sforzo per contenere l’inevitabile. Ronit ed Esti fuggono in un hotel nel centro della città. Nella camera da letto, prima di fare sesso, Esti si libera dei vestiti e stavolta anche della sua parrucca, di quel simbolo di subordinazione femminile. E inizia a uscire dallo stampo in cui si era inconsciamente e consapevolmente rinchiusa.
I momenti di appassionata disobbedienza tra le protagoniste rapiscono per la loro autenticità. In particolare la discussa scena di sesso al centro di “Disobedience”. Lunghi minuti meticolosamente coreografati e così ben lavorati nei toni dell’intensità e dell’intimità da non sembrare né espliciti né gratuiti. La nudità è taciuta da un sofisticato intreccio di primi piani che alterna l’amplesso di coppia ai dettagli di piacere sul volto di Esti. La vicinanza parossistica della cinepresa spinge a immaginare le cause di certe espressioni estasiate. A un certo punto Ronit sputa nella bocca di Esti: un gesto audace eppure così tenero. Una ripresa sessuata diversa e potente, che non vuole dirsi puro erotismo ma continuazione dell’esplorazione dei caratteri. Assai differente da altre scene di amore lesbico. Su tutte quella di sessualità quotidiana in “La vita di Adele” (2013). Sebastian Lelio non vuole erotizzare ma mostrare come i due personaggi si siano ricongiunti visceralmente.
Sebastián Lelio si conferma uno specialista nel ritrarre il desiderio di prossimità umana contrario alla norma prevalente.
Sorprende la chimica naturale tra le due interpreti. Rachel Weisz, che ha fortemente voluto questo progetto filmico, prevale in bravura rispetto a Rachel McAdams. Tuttavia, è proprio il personaggio di quest’ultima ad essere quello più interessante e meglio scritto. Probabilmente perché Ronit è una donna già risolta, laddove Esti traccia una traiettoria evolutiva. Ed è a questa che noi assistiamo guardando il dramma sapientemente controllato da Sebastian Lelio. “Disobedience” è girato in tonalità tenui e attenuate, contrappuntate dall’interessante colonna sonora di Matthew Herbert. Le note meditative e quasi scherzose del compositore restituiscono in musica i sentori di attesa e malinconia, contribuendo al generale senso di disorientamento e sovversione. L’ambientazione a Golders Green esclude qualsivoglia estetizzazione. La luce esterna è noiosa, le strade alternano spazi vuoti a meste strutture suburbane, e il rito funebre in corso tiene gioco all’illuminazione tetra degli interni.
Sebastián Lelio si conferma uno specialista nel ritrarre il desiderio di prossimità umana contrario alla norma prevalente. La capacità più pronunciata del regista è quella di ottenere performance magistrali dalle sue interpreti. E per farlo affida loro personaggi in grado di urlare le proprie emozioni tanto col volto quanto con le parole. “Disobedience” è probabilmente il suo film più contenuto stilisticamente, ma la sua rigidità formale ha lo scopo di rafforzare l’atmosfera della storia. L’ortodossia ebraica inscenata non è fatta di fanatismi radicali, bensì di giudizi silenziosi altrettanto fastidiosi. Tutti guardano tutti alla continua ricerca di segni e di comportamenti non conformi, dettagli di un’immagine comunitaria asfissiante. La scrittura si impone per l’alto livello, fornendoci un dramma meditativo e toccante. Un’esplorazione filmica dell’amore, della libertà, della fede e delle scelte personali, sempre condotta con rispetto e compassione, senza prediche né giudizi.