I TWENTY FOUR HOURS e il perfetto CLOSE - LAMB - WHITE - WALLS (Album)
I Twenty Four Hours.
I Twenty Four Hours.

I TWENTY FOUR HOURS e il perfetto CLOSE – LAMB – WHITE – WALLS (Album)

“Close – Lamb – White – Walls”. Un titolo che è tutto dire. Uscito il 25 Ottobre con Musea e Velvet Luna, il sesto album dei Twenty Four Hours è un doppio album che lega i rami alle radici. Radici progressive, oscurate dal wave e elettrizzate dal punk. Nutrite d’amore e attenzione. Capaci, e per questo, di “generare lillà dalla terra morta”. Morta, perché, ascoltando l’album, la nostalgia che monta è tanta.

Eppure, del trentennio intercorso tra gli inizi e “Close – Lamb – White – Walls” si percepisce l’ispirazione, si intende l’omaggio e si balla il ricordo, ma ciò che più colpisce è l’audacia con la quale i Twenty Four Hours hanno esposto loro stessi: assurgendo il passato a leggenda e indossandone le sorti.

Sette i brani del “Close – Lamb”, cinque del “White – Walls”. Un dualismo simbolico, quello del disco, che invece di separare unisce. Joy Division, Genesis, The Beatles e Pink Floyd. Rispettivamente: “Closer”, “The Lamb Lies Down on Brodway”, “White Album” e “The Wall”. Quattro ispirazioni decisamente importanti e fondative del sound dei Twenty Four Hours, ma che pure dalle loro mani non risulta anacronistico.

Ciò che più colpisce è l’audacia con la quale i Twenty Four Hours hanno esposto loro stessi: assurgendo il passato a leggenda.

“77” è l’apripista. Data significativa per il movimento della musica punk, il brano intende chiaramente mescolare le carte in tavola. Va bene il prog, va bene il punk, va bene tutto. Ma se l’amore per una qualsiasi azione musicale già sperimentata e riproposta non trova una contestualizzazione nell’attualità, allora forse tocca starsene a suonare tra i ricordi. Per quanto vivi, per quanto veri.

E “77”, nella sua non-prepotenza, prepara l’orecchio alla commistione di suoni frattalici e suadenti, di un rock sperimentale che, forte del passato, si proietta nel contemporaneo. Se nella prima parte del disco il richiamo alla dark wave divisioniana è più incidente, è pur vero che ad essa si sovrappone la ricreazione di atmosfere vocaliche e strumentali alla Pink Floyd. Penso a “Urban Sinkhole” (a chiusura del “lato A”) che del freddo delle radure urbane raccoglie l’aerosità e dell’elettricità, il calore.

Degna di nota è la collaborazione con Blaine L. Reininger e Steven Brown. I due membri fondatori dei Tuxedomoon, gruppo californiano post punk/new wave, sorto proprio nel 1977 (come i Joy Division, del resto) partecipano in “Intertwined”, dove Reininger scende nel profondo della sperimentazione e tesse col suo violino una ragnatela sonora e tagliente in cui si incastra la sua voce cavernosa. E in “All the world need is love”, dove la tromba di Brown scioglie i ghiacciai della carica maestosa della voce di Elena Lippe, sorella di Marco e Paolo Lippe, fondatori della band, entrata nel gruppo ai tempi di “Left – To – Live”, nel 2016.

“Scopri chi sei e segui te stesso” aveva scritto qualcuno. Ecco, i Twenty Four Hours l’hanno fatto. E l’hanno fatto sul serio.

“What Use” è la traccia cover che nel disco omaggia i Tuxedomoon. Formula cara ai Twenty Four Hours, questa è la seconda cover del disco e prima traccia a sfoderare contaminazioni elettroniche e moderne. Con distorsioni ed effetti, sembra marcarsi l’idea di una ricerca profonda e mirata del passato al fine di manipolarlo senza guastarlo. Una seconda versione del brano, acustica e rullante, si ritroverà a chiusura del secondo disco.

“Adrian” è il brano che invece il secondo disco lo apre. Dedicato ad Adrian Borland, il genio pazzo dei rimpianti The Sound, il pezzo è un’intensa rock ballad vagamente psichedelica che introduce a “Supper’s rotten”, a mio avviso il miglior brano dell’album. Un quarto d’ora di godimento e puro prog alla Genesis di Peter Gabriel. Magicamente attuale nei riff acustici, è qui che i Twenty Four Hours spalancano le porte all’autenticità della loro ispirazione.

“Scopri chi sei e segui te stesso” aveva scritto qualcuno. Ecco, i Twenty Four Hours l’hanno fatto. E l’hanno fatto sul serio. A trentasei anni da quella che al loro esordio era stata un’epoca diversa, la band nostrana transregionale insiste, resiste, persiste. Sempre nei suoi panni, letteralmente provata dal tempo e mai dall’usura. Perché seguire se stessi non è rincorrere un prolungamento. Seguire se stessi è farsi più larghi. È un atto coraggioso d’inclusione, di messa in discussione. Un’azione vitale finché si sta in vita, necessaria finché si fa arte.

 

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TWENTY FOUR HOURS

CLOSE – LAMB – WHITE – WALLS

25 ottobre 2018

Musea | Velut Luna

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