Siamo qui in compagnia di Stefano Tamborrino, in arte Don Karate, batterista jazz, produttore, artista a tutto tondo; prima delle presentazioni ufficiali, perché non inizi raccontandoci qualche buffo accadimento che ti è capitato durante la tua carriera di musicista?
Dunque, prima di tutto devo dire che è un vero piacere parlare a te e a tutti i lettori di Music.it, in primis perché sono murato in casa dalla pandemia, in secundis perché adoro mentire spudoratamente. Accadimenti buffi? Diamine, questo sì che potrebbe rivelarsi come uno di quei momenti imbarazzanti in cui vieni invitato a una festa durante la quale, per vincere la timidezza, ti sfondi di spuma al cedro, ignaro del fatto che da lì a due ore vomiterai il tutto nell’acquario tropicale ubicato all’ingresso del domicilio da cui cercherai di uscire impunemente con la speranza che nessuno dei partecipanti abbia ancora realizzato la mutazione da ecosistema marino a insalatiera russa ed evitare così di finire protagonista di un meritatissimo pestaggio o di un altrettanto opportuno telegatto. Grazie al cielo non si trattava della casa di colui che in futuro sarebbe stato il mio produttore, forse.
Parlaci di te, chi è Stefano Tamborrino?
Stefano è una persona come tante che a un certo punto ha incontrato la possibilità di scrivere musica. Questa attività, per quanto banale, si è rivelata come la più efficace tra le cure della mia esistenza, il metro attraverso il quale ho saputo misurare il valore del tempo. Se oggi sono felice, e credo di esserlo, è anche merito di questo sodalizio.
Cosa rappresenta per te il tuo progetto Don Karate? Quale è la sua storia?
Don Karate è nato tre anni fa più come un soliloquio che come un progetto solista. Volevo essere autore e compositore, batterista, ma anche bassista, pianista, cantante, trombettista, violoncellista… E inizialmente, almeno nel primo album, ho tenuto davvero questo approccio, come dire, ludico. Poi, quando mi è stato chiesto di eseguire dal vivo alcune composizioni della mia carriera di “autore”, ho compreso quanto sarebbe stato più divertente condividere questo capitolo di Don Karate con altre persone: ecco quindi Pasquale Mirra al vibrafono e Francesco Ponticelli al basso elettrico, due veri maestri. In un certo modo, Don Karate rappresenta la soglia di una porta che ho varcato per entrare dentro di me, e scoprire un mondo nuovo.
Cosa significa essere un percussionista nel 2020? Quanto è stato importante lo studio della batteria nella tua vita?
Sono autodidatta, non ho mai studiato la batteria nel senso più accademico del termine. Sarebbe più corretto affermare che ho amato la batteria come ancor oggi amo la musica. C’è stato un periodo in cui andavo a dormire con le bacchette in mano, pensando che ciò avrebbe favorito una maggiore familiarità con il fulcro dell’impugnatura. Non so se abbia funzionato, non credo neanche sia importante ai fini della questione. L’amore si fa perché non vi si può sottrarre, non perché funzioni. Per il resto la mia scuola è consistita sempre nel suonare al fianco di musicisti migliori di me, ancor oggi, nel 2020, nel mio disco.
Quali erano gli artisti che ti hanno guidato nella tua lunga carriera, le tue stelle polari?
Sono stati molti, in relazione alle fasi del mio percorso. Ad esempio, qualche giorno fa a casa dei miei ho ritrovato un disco che a dodici anni ascoltavo quotidianamente insieme a mia sorella più grande, e a cui sono legato. Visto che sapete già dei pesci tropicali, non ho problemi a dirvi che disco sia: la colonna sonora di “Pretty Woman”. E volete la verità? Per me è un disco pazzesco, perché rappresenta perfettamente una decade in cui si rimaneva in studio un anno intero a concepire, produrre, registrare un album, curandone ogni minimo dettaglio. Le stelle polari spesso si spengono quando le incontri. Sperando di non deluderti, farò una lista di non batteristi, limitandomi a citare in ordine sparso alcuni dei nomi che ho adorato: Nick Drake, i Radiohead, Domenico Modugno, Kurt Rosenwinkel, Jon Hopkins, i King Crimson, i The Police, John Coltrane, e molti molti altri.
Parliamo un po’ del tuo nuovo disco, come è nato?
Scrivo tanto, perché mi fa stare bene. Dopo la stesura iniziale, tendo a lavorare incessantemente sul dettaglio sino al raggiungimento di un’estasi amorosa nei confronti di quel che ho partorito indipendentemente dal raggiungimento di un risultato accademicamente corretto. Nonostante la passione sfoci talvolta in eccessiva perizia, lascio sempre aperta la possibilità di intraprendere altre strade, in fase di produzione. Ad esempio “Tea for Don Karate” è stata completamente stravolta da Francesco Ponticelli, che ha co-prodotto tutto il disco. Il fatto che sia un amico e che abbiamo raggiunto un’alchimia su cui non dobbiamo troppo discutere ha certamente aiutato, però se si esclude la fase iniziale e solitaria di composizione (che chiameremo no fun for tropical fishes), il resto è stato un processo molto naturale e fluido, e che ha posto già le basi per quello che sarà il nostro prossimo lavoro, se non altro nel metodo.
Possiamo dire che il tuo disco è per lo più strumentale, c’è comunque un messaggio di fondo che vorresti veicolare con la musica oppure rimandi tutto alla libera interpretazione dell’ascoltatore?
La musica è il filtro oltre il quale non ho necessità di sporgermi. Quando le parole avranno bisogno di sostituirsi alle note poggiate sui miei brani significherà che avrò fallito e per ora preferisco non crederlo.
Come hai vissuto le session in studio? C’era feeling tra te ed i musicisti che ti hanno affiancato?
Prendo questa domanda per partire con un volo pindarico, visto che non posso uscire di casa. Ho sempre avuto la fortuna di circondarmi di persone straordinarie, prima che di grandi collaboratori, e con queste persone è più facile creare un buon feeling. E non parlo solo dei musicisti, parlo anche dei tecnici di studio, dell’etichetta che ha adottato il mio vinile, delle persone coinvolte a tutti i livelli nel progetto Don Karate. I musicisti con cui condivido il palco sono il futuro che spererei di incontrare se non fossero parte del mio presente. La stima e la gratitudine che ho per loro travalica la sala di registrazione.
Grazie Stefano per questa intervista, ti auguriamo il meglio per il tuo progetto e speriamo di poterti ascoltare ancora. Lasciamo a te la fine dell’intervista, finisci come più ti piace, le ultime righe sono le tue!
Il piacere è stato tutto mio. Colgo l’occasione per salutare i lettori di Music.it, con la speranza di aver solleticato la loro curiosità. E non dimenticate: se un giorno ad una festa noterete un acquario di pesci tropicali, tenetevi lontani dalla spuma al cedro…