Emanuele Belloni ci porta tra le umide mura del carcere di Rebibbia col suo ultimo disco “Tutto sbagliato”, uscito il 23 novembre per Squilibri Editore. Oggi è ospite su Music.it, e ne approfittiamo per chiedergli di raccontarci qualcosa in più del suo splendido album. Prima di tutto, ti andrebbe di condividere coi nostri lettori un episodio significativo che ti è capitato, da quando fai musica?
Un aneddoto… Era maggio 2013, presentazione del mio primo album “E Sei Arrivata Tu” all’Auditorium Parco della Musica, insieme a jazzisti e nomi di primissimo livello. Poco prima di entrare in scena avvicino lo storico contrabbassista Enzo Pietropaoli. Gli sussurro «Enzo, questo è il mio primo concerto. Ma primo davvero». Non mi ha creduto, ma alla fine mi ha fatto i complimenti. E da allora ho iniziato a suonare davvero.
“Tutto sbagliato” è tutto tranne che sbagliato. Tutti dovrebbero abbandonarsi alla voce dei detenuti che tu gli hai restituito. Com’è nato questo progetto? È stato difficile portarlo alla luce?
Avevo iniziato a scrivere i primi pezzi già dal termine di “E Sei Arrivata Tu”. “Le tre scimmie”, un brano dell’ultimo disco, veniva presentato come inedito nei primi concerti. Da lì è nata l’idea di un concept album che avesse nel racconto della detenzione il suo fil rouge. Un racconto dove, fuori dallo scenario del carcere, si avvicinassero all’ascoltatore detenuti e addetti ai lavori senza soluzione di continuità. La voglia di libertà degli uni e degli altri, condivisa in pareti anguste e campi di cemento.
Sorge spontaneo un parallelismo fra “Tutto sbagliato” e il film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”. Cosa ne pensi?
Essere la parallela ai fratelli Taviani è un’esperienza che qualunque linea retta vorrebbe avere nel corso della sua vita! Quel film è ancora presente a Rebibbia: ne parlano tutti, dai portantini ai detenuti, dalle guardie agli educatori. È importante che in spazi reclusi ci sia sempre l’attenzione del mondo libero verso la crescita e l’esperienza rieducativa. Sicuramente per la produzione del film è stato più semplice entrare e disporre di spazi e persone. Nel mio caso ho dovuto faticare di più ma alla fine il risultato è arrivato, grazie alla collaborazione attiva di tantissime persone.
Sono certo che hai fatto tutto il possibile per rendere questo disco un’opera di valore. Com’è stato per te collaborare con i detenuti del carcere di Rebibbia?
Sono entrato da alieno e sono uscito da amico. La musica è il linguaggio più universale del mondo e questo ha reso possibile il dialogo a qualunque livello. Ho trovato persone che si sono commosse. Ho trovato persone che, col cuore in mano, hanno regalato alla mia musica un soffio di tromba, una voce strozzata, un colpo di chiave sulla grata della cella. Ognuno con il suo strumento, senza distinzione di razza, colore di pelle e stato sociale. Sì, suona strano rispetto a quello che accade nel momento storico di questo paese. Ma in certi ambiti è ancora consentito andare contromano.
Ritieni che la musica possa davvero veicolare da sola un messaggio importante come quello contenuto in “Tutto sbagliato”?
«La musica può fare», cantava un collega decisamente più famoso di me (Max Gazzè, ndR). Eh sì, può fare: la musica ha un potere che può ancora stupire gli uomini, commuovere i forti e far addormentare i bambini. Che sia una ninna nanna o una canzone di lotta, la musica rimane quel meraviglioso fiume in piena che rompe gli argini e porta al mare. Sulla copertina del disco ho cercato di fare un esperimento sociologico: ho lasciato uno spazio dove attaccare una foto, la foto del testimone. Di colui che ha ascoltato il disco e che ha deciso di metterci la faccia. Credo che in questi anni di musica liquida, anzi molecolare, l’unica speranza prima del tracollo sia di riappropriarci della dimensione fisica del mondo. Degli abbracci degli amici e non dei loro like.
Qual è un musicista o un cantautore del passato con cui ti sarebbe piaciuto scrivere una canzone?
Certamente Johann Sebastian Bach. Gli altri hanno già fatto delle cose meravigliose da soli. Ma un compositore del suo calibro che si diverte ad arrangiare un brano, pensando a delle voci in fuga rispetto al canto, sarebbe stata un’emozione senza tempo.
La tua musica ha radici nel cantautorato folk. Chi ti ha influenzato maggiormente nella tua crescita come musicista e cantautore?
L’ascolto dei vinili di Luigi Tenco e Fabrizio De André mi ha marchiato. Quel suono e quella schiettezza lirica e armonica mi hanno fatto imbracciare la chitarra e imparare le prime canzoni. Ma poi si cresce e si viene contaminati dai suoni e dagli strumenti che si vorrebbe avere accanto alla propria musica. Si viene modellati dagli stili che si imparano ascoltando e dai concerti che ti fanno vivere esperienze che vorresti ripercorrere. Prendi tutto questo, mischialo e filtralo. E così certe ance – clarinetti, organetti, bandoneon – e certe armonizzazioni della bossa nova, e il contributo di grandi musicisti come Riccardo Tesi, produttore artistico di “Tutto Sbagliato”, si fondono e diventano quello che dentro era la musica per me.
Ringrazio Emanuele Belloni per averci dedicato il suo tempo. Vuoi aggiungere qualche altra cosa in coda a questa intervista?
Lascio la speranza che ancora niente sia per sempre tutto sbagliato. Che dietro all’errore, alla colpa, alla sua espiazione, ci sia il ritorno ad una vita dove si possa guardare in alto e dove ci si possa far riscaldare dal sole. È questo quello chi insegno a mia figlia di 2 anni. Ed è questo quello che imparo ogni giorno.