Fino a pochi anni fa era Cormac McCarthy a detenere il titolo di scrittore contemporaneo più trasposto al cinema. Probabilmente ad oggi, a conti fatti, occorrerebbe un passaggio di testimone. Stando solo all’ultimo anno, Ian McEwan, il più illustre romanziere inglese contemporaneo, ha visto ben sue tre opere tradotte dalle parole alle immagini. Dopo “Bambini nel tempo”, ancora senza distribuzione in Italia, e “Chesil Beach – Il segreto di una notte”. in uscita il 6 dicembre, arriva sullo schermo “The Children Act – Il verdetto”, tratto da uno degli ultimi titoli dello scrittore, “La ballata di Adam Henry”, e da lui stesso sceneggiato.
Questo film di Richard Eyre ribadisce l’unico modo possibile che il cinema ha di trasporre una materia letteraria nobilissima senza soccomberle. Ovvero setacciarne il contenuto, affidarlo alle immagini ed esaltarlo attraverso la forma. Laddove molti hanno preferito discostarsi dalle righe scritte e compiere una rilettura personale del racconto, il regista pare consapevole di avere tra le mani un romanzare sofisticatissimo. La prosa di Ian McEwan lascia avanzare la trama ma cela sempre in essa un nucleo introspettivo, apparentemente intraducibile per il cinema. Eppure, Richard Eyre riesce a superare gli ostacoli dell’inchiostro attraverso un nobile atto di fedeltà cine-letteraria.
“The Children Act – Il verdetto” beneficia della cronologia semplice del libro, affidando a un sottotesto di silenzi e di assenze i dilemmi esistenziali più intensi.
Fiona Maye (Emma Thompson) è un’eminente giudice dell’Alta Corte londinese che con saggezza e compassione presiede casi eticamente complessi di diritto di famiglia. Oberata dai doveri e dalla devozione per il proprio lavoro, la donna ha sacrificato la vita personale. Ormai il suo matrimonio con il professore americano Jack (Stanley Tucci) è a un punto di rottura. In questo momento di crisi personale, a Fiona viene chiesto di decidere sul caso di Adam (Fionn Whitehead), un ragazzo brillante e malato terminale ma che, per motivi religiosi, rifiuta la trasfusione di sangue che gli salverebbe la vita. Mancano tre mesi al suo diciottesimo compleanno, eppure per la legge inglese Adam è ancora un bambino. Fiona dovrebbe costringerlo a vivere? La donna, contravvenendo alla prassi, visita il ragazzo in ospedale. Il loro incontro ha un profondo impatto su entrambi, infonde nuovi emozioni al ragazzo e fa riaffiorare sentimenti sepolti nella donna.
Da ammiratore-divoratore di tutta la sua produzione, trovo facile dire che questo di Ian McEwan è uno dei suoi romanzi più lineari sul versante narrativo. Allo stesso modo, il film beneficia proprio della cronologia semplice dell’intera situazione, affidando a un sottotesto di silenzi e di assenze i dilemmi esistenziali più intensi. Le descrizioni minuziose tipiche dello scrittore sembrano condensate nei gesti e nelle parole dei personaggi rappresentati. Eppure, nonostante il lavoro di lima che la cinepresa non può evitare, la complessità del discorso di fondo rimane. Neppure in un momento si è portati a pensare a un semplicistico film giuridico. Né che tutto si risolva a uno scontro tra etica e credo. La decisione giurisprudenziale di Fiona è un turning point momentaneo che innesca una serie di conseguenze umane ben più interessanti.
Dopo averci tenuti sospesi e interrogati su dilemmi dogmatici e razionali, “The Children Act – Il verdetto” rimette in gioco la trama.
Nonostante il fascino che il caso giuridico in sé può suscitare nello spettatore, la forza del film emerge nella seconda parte, all’indomani della sentenza. Dopo averci tenuti sospesi e interrogati su dilemmi dogmatici e razionali, “The Children Act – Il verdetto” rimette in gioco la trama. Ci trascina in balia di questioni diverse, ben lontane da semplici risoluzioni giuridiche. Il Children Act che Fiona impugna, le consente di esprimersi a difesa del presunto interesse del minore, ma il verdetto della donna innesca una serie di conseguenze per il giovane Adam. Il ragazzo sopravvive per imposizione di qualcun’altro, rinasce lontano dalla religione e dalla famiglia, ma si ritrova preda di un amore materno per la donna. Fiona gli ha dato la vita, evidentemente sottovalutando la portata della sua ennesima sentenza. Ormai il distacco emotivo che la toga le intima risulta impossibile, e la sua inferenza professionale richiede una pericolosa compromissione personale.
È giusto che un giudice imponga di vivere a un ragazzo decidendo al suo posto? Qual è l’età anagrafica che ci tiene in balia degli altri e quale invece ci lascia soli nel mondo? Si tratta di domande che alcuni recenti casi reali ci hanno riproposto, spesso ridicolizzandole nel circo mediatico e riducendole a dibattiti tra schieramenti. Il film fa suoi questi quesiti ma li utilizza come note di base su cui costruire un discorso stratificato. Adam pretende che Fiona continui a interessarsi alla vita che lei ha voluto imporgli. E da qui si dirama un altro problema. La situazione personale della donna con un marito deciso a concedersi l’ultimo flirt, interferisce con la sua lucidità decisionale. Fiona impone la sopravvivenza al ragazzo proprio come impone al suo matrimonio di sopravvivere. L’incapacità di scindere se stessa dagli altri avrà esiti drammatici.
“The Children Act – Il verdetto” lavora sul concetto di colpa, di responsabilità personale e sulla lunga traiettoria di ogni singola scelta.
Il diritto di vivere diventa un obbligo e l’amore muta in accanimento affettivo. La Legge ha concesso a Fiona il potere di decidere per Adam, e sarà la stessa Legge a impedirle di poterlo fare ancora. Raggiunta la maggiore età, Adam può stabilire con la donna un rapporto solo apparentemente paritario. Adesso è lui ad imporle la sua presenza, insinuandosi nelle fragilità di Fiona e aprendo gli eventi a risolvi ambigui dal leggero fascino sadico. Pur senza raggiungere gli epiloghi drammatici di romanzi e di film come “Il giardino di cemento” (1993), “L’amore fatale” (2004) o “Espiazione” (2007), “The Children Act – Il verdetto” lavora sul concetto di colpa, di responsabilità personale e sulla lunga traiettoria di ogni singola scelta. Ingredienti costanti nell’opera di Ian McEwan e che Richard Eyre rafforza operando in sottrazione.
La regia eccelle nella sua sobrietà, evitando di soffocare la materia del romanzo, già raffinata in partenza, con inopportune sovrastrutture stilistiche. Come già visto in “Diario di uno scandalo” (2006), l’eleganza narrativa è semmai esaltata dalla direzione degli attori e dalla loro recitazione. Tra tutti spicca la classe english school di Emma Thompson, capace di chiarificare in pochi sguardi la complessità del personaggio e di mitigare la morbosità tipica delle pagine di Ian McEwan.