…and the White Man is on the Moon.
Queste parole, ripetute come un mantra da un predicatore nero in protesta, arrivano a metà del film d’apertura della 75^ Mostra del Cinema di Venezia. “First Man – Il Primo Uomo” di Damien Chazelle, giovane regista statunitense che ha l’onore e l’onere di tagliare un altro nastro festivaliero dopo soli due anni da “La La Land” (2016), che proprio qui al Lido saltò sul trampolino e finì carpiato agli Oscar. Per chi scrive già l’accoglienza plaudente del trasognante musical made-in-hollywood sembrò eccessiva, ma stavolta credo di potermi scrollare di dosso l’etichetta di bastian contrario nel dire che questa nuova regia di Damien Chazelle non corre il rischio di fastosi abbagli.
Se stabilissimo una proporzione, il “White Man” del recital starebbe per la vanagloria americana, laddove la Luna potrebbe venir letta come l’arena vergine in cui ribadire la propria superiorità. O, se pure volessimo semplicemente parafrasare, diremmo che l’uomo bianco è il regista che ha portato la sua macchina da presa verso una vicenda che è un pezzo di storia, ma non quella del cinema.
Ci teniamo distanti dal ritenere un progetto filmico più o meno necessario di realizzazione. Tocca comunque chiedersi a cosa serva raccontare (ancora!) del primo uomo sulla Luna. Neil Armstrong è patrimonio e mercimonio americano da cinquantanni, fin da quando fu assunto e addestrato dalla NASA per competere con i sovietici nella conquista spaziale. Una gara che vedeva gli agoni a stelle e strisce dover spalleggiare per farsi spazio nell’orbita terrestre già ampiamente russificata. Ecco quindi ribadire il secolare egotismo virile nordamericano: non recuperare le distanze ma ampliarle. Di quanto? Lo spazio di due lavagne. Tanto serve per illustrare in scala la traiettoria che unisce terra e luna, ma soprattutto l’obbiettivo da raggiungere per primi per tornare ad essere primi.
Damien Chazelle impianta questo suo terzo lungometraggio su un doppio binario, servendosi di tutte le declinazioni del montaggio per unire pianeta e satellite, umano e eroico, finanche vita e morte.
Ma perché? E qui non si ripete l’interrogativo precedente sulla necessità filmica, ma piuttosto quello storico della missione Apollo 11. Questo soprattutto a fronte della lunga scia di vittime, astronauti e piloti immolati all’interno di capsule stagne prototipiche. Dei cilindri di viti e lamiere lontanissime dagli spazi asettici a gravità zero ai quali ci ha abituato tanta fantascienza. Nel tentativo di migliorarsi di anno in anno, di errore in errore e di vittime in vittime, governo e scienziati hanno portato avanti una missione gloriosa per una dubbia conquista dell’umanità, molto dispendiosa e poco vantaggiosa. Tanto che a un certo punto “First Man – Il Primo Uomo” sembra quasi rispondere a tutte le domande poste, inserendo immagini del JFK compianto mentre spiega all’America le ragioni poetiche e molto ruffiane di un obbiettivo tanto alto.
Ragioni che convincono poco, tanto quanto il film di Damien Chazelle che, per non limitarsi alla cornice di genere, affianca alla storia dell’Armstrong eroe (un Ryan Gosling meno afasico del solito) quella del Neil uomo. Il film ci propone un padre in lutto, marito ciclicamente affettuoso di Janet (interpreta da Claire Foy, ipotecabile non protagonista), accostato al cosmonauta spinto in una missione dalle incognite ardue più per bisogno umano che per sogno professionale.
Alla fine, “First Man – Il Primo Uomo” rimane intrappolato nell’orbita delle sue ragioni d’essere film, girando di 360° per più di due spropositate ore senza lasciare granché.
Il regista impianta questo suo terzo lungometraggio su un doppio binario, servendosi di tutte le declinazioni del montaggio (alternato, parallelo, associativo) per unire pianeta e satellite, umano e eroico, finanche vita e morte. Una cristallizzazione d’intenti che puzza di taglio autoriale autoimposto, nel tentativo di trovare il proprio spazio nella lista dei titoli over earth accumulatisi sugli schermi negli ultimi anni. Un po’ in balia della propria macchina da presa come il suo protagonista in orbita, Damien Chazelle sovrappone i registri stilistici, affiancando gli echi malickiani della camera a spalla ai primi piani di Ryan Gosling claustrofobici come nel “Gravity” cuaroniano, le soggettive pure ed emotive dei lanci supersonici agli inserti di repertorio, fortunatamente pochi. Ovviamente la partita del visual effects è vinta, ma ormai nel 2018 la si dà un po’ per scontata nelle produzioni high budget.
Alla fine, “First Man – Il Primo Uomo” rimane intrappolato nell’orbita delle sue ragioni d’essere film, girando di 360° per più di due spropositate ore senza lasciare granché. Qualche applauso convenevole al termine della proiezione stampa e divisioni tra gli “io c’ero e l’ho visto in diretta” e gli “ora so chi era Armstong”. Appunto: adesso (ri)sappiamo chi era Neil Armstrong. Tutto bello! E quindi? The White man is on the Moon, e quindi?