GRANDI NUMERI (COR VELENO): "L'arte la trova chi ascolta la musica"
I Cor Veleno ritratti da Paolo Marchetti.
I Cor Veleno ritratti da Paolo Marchetti.

GRANDI NUMERI (COR VELENO): “L’arte la trova chi ascolta la musica”

A sapere lo sapevo, ma solo quando ci siamo salutati ho realizzato di aver parlato con un uomo che è parte di un pezzo di storia della musica rap in Italia. Un pezzo enorme e di cuore puro, come lo spirito di Primo Brown che risuona nel disco con la “vibrazione che me dà Squarta”. Quella sera ho fatto dei bellissimi sogni. Alla luce di tutto questo, mi auguro che il rap dei Cor Veleno vi benedica le orecchie e porti la magia dentro le vostre teste. Buona lettura.

Ciao Giorgio! È un onore avere Grandi Numeri sulle nostre pagine! Intanto, complimenti per il disco perché è una bomba! A proposito, vorrei cominciare con una domanda a cui teniamo molto. Riguarda un aneddoto particolare da svelare. Ne hai uno relativo allo sviluppo de “Lo Spirito che Suona”?

La lavorazione di un disco non procede sempre in forma lineare. Nel nostro caso, mi viene in mente quanto sia stata bella l’esperienza relativa alla nascita di “Niente in Cambio”, il nostro ultimo singolo. Nella canzone ci sono Roy Paci e Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. Giuliano è venuto a prendermi e siamo andati in studio per registrare la canzone “Lo Spirito che Suona”. Lui ha impiegato pochissimo tempo a scrivere la sua parte di testo. Ci aveva convinti da subito. Poi è successo che ha voluto ascoltare altri brani. Quando è arrivato a “Niente in cambio” ci ha lanciato uno sguardo meravigliato e ha detto: “Ma io ci devo cantare qua sopra”. Per noi è stato un colpo al cuore, perché appena ha intonato quelle parole nello studio è stata magia. Tutto è successo nel giro di un’ora e mezza.

Deve essere stato davvero diverso registrare un album che ha così tanti artisti dentro.

Sì, è sempre particolare quando registri un disco con tanti ospiti. Mi piace tanto la partecipazione di Adriano Viterbini e i Bud Spencer Blues Explosion. Sono un duo blues fantastico, motivo d’orgoglio per la musica in Italia. Li conosco da tanti anni. Loro erano a Radio Sonica, vicino al nostro studio dove in quel momento c’era Davide Toffolo (Tre Allegri Ragazzi Morti). È lui che ci ha portati a salutare i ragazzi. Io non li vedevo da un po’. Quando ci siamo beccati, Adriano è stato felicissimo. Mi ha detto di essere cresciuto con la nostra musica e questo non lo avrei mai immaginato. L’ho invitato in studio dove avremmo arrangiato tre canzoni. In due ci ha messo le sue liriche che sono molto Cor Veleno. Diciamo che i Bud Spencer Blues Explosion sono i nostri gemelli nel blues. Da allora ci vediamo regolarmente.

Infatti ti confesso che è stata una bella sorpresa aver trovato Adriano tra gli ospiti dell’album perché ho avuto il piacere di intervistarlo. In quell’occasione mi aveva detto che sia lui che Cesare hanno sempre ascoltato il vostro rap, pur non svelandomi questa collaborazione.

Ma infatti sono queste cose della lavorazione del disco che mi hanno fatto amare particolarmente questo album, che comunque è stato molto doloroso. Onestamente, non so dirti se sia un disco bello. Questa cosa te la dice più un altro tipo di artista, quello a cui piace fare le cose patinate, diciamo con un algoritmo in testa. Nel nostro caso, posso dirti che il nostro disco è unico. Unico nel senso che volevamo lasciare un regalo enorme nel cuore dei nostri fan e ricordare Primo Brown.

Infatti, sono certa che chiunque lo approcci sappia che questo non è un disco come un altro, anche per la coralità della lavorazione, appunto. A questo proposito, ti chiedo se la collaborazione con i diversi artisti sia nata da una vostra “call for artist” oppure se sono state le persone ad avvicinarsi e chiedervi di partecipare.

Dopo che abbiamo iniziato, il numero degli artisti che avremmo voluto coinvolgere sarebbe stato molto più grande. Però questi sono gli artisti che noi volevamo. Diciamo che, come tessere di un puzzle, hanno preso tutti la giusta forma. Perché a volte tutti vogliono partecipare. Però poi, all’ultimo momento, le cose non sempre collimano. Stavolta invece tutto ha preso una forma magica. Magica perché era magico ascoltare Primo Brown che usciva fuori dalle casse ogni volta che arrangiavamo un pezzo nuovo. Se pure non stava là fisicamente, c’era con tutto lo spirito. C’è infatti una doppia chiave di lettura dell’album. “Lo Spirito che Suona” è lo spirito di Primo Brown che è vivo nel disco dei Cor Veleno. “Lo Spirito che Suona” è anche lo spirito che lega i musicisti in questo progetto, al di là dei generi e del rap che ognuno di noi porta avanti.

Una terza chiave di lettura che ho trovato ascoltando l’album è il conferire alla musica rap venature che si immergono in tutto l’universo musicale, anche nelle zone più distanti. I suoi confini non sono affatto murati, nonostante la forte identità che il genere ha sempre assunto. Ti chiedo allora: qual è il soffio rap di Grandi Numeri dentro “Lo Spirito che Suona”?

Il mio rap è quello degli inizi. Quello che mi ha fatto amare questa musica e che mi ha cambiato la vita. Quando abbiamo iniziato a fare musica insieme a Danno e a Masito Fresco del Colle der Fomento non c’era una prospettiva. Non ce ne fregava neanche un cazzo di sapere che cosa sarebbe venuto fuori dall’amare questa musica. Il fato ha voluto che poi diventasse la nostra vita. Anche a livello di discorso discografico e di crescita, per dirla in una parola. Ma tutto questo, quando abbiamo iniziato, non era previsto. E quest’incoscienza è ciò che ci ha fatto venire in mente di fare ancora un altro disco.

Come una sorta di traccia identitaria dunque.

Sì. Riconosco che la costante della nostra band è stata approcciarci alla musica nella maniera più fresca. Nel senso di essere liberi, senza ascoltare la musica con tutti quegli algoritmi in testa. Il singolo “Niente in cambio” raccoglie questa filosofia. Lo spirito nostro è quello di fare la musica, è letteralmente lo spirito che suona.

Non c’entra niente col business, mi stai dicendo.

Si, ma business è una parola che dice tutto e niente. Anche uno che si alza la mattina e va a lavorare fa business. L’importante è come lo fai. Noi lo abbiamo fatto diventare un lavoro, ma lo portiamo avanti con un nostro personalissimo punto di vista.

Già. È che voi fate arte.

Questa è una parola più grande di noi. L’arte la trova chi ascolta la musica, noi facciamo musica con la voglia di mettere nero su bianco quello che abbiamo dentro.

“Che è soltanto un po’ più facile guardarsi l’anima su un foglio bianco”.

Esattamente.

Visto che gli inizi me li hai accennati tu, ti chiedo: com’è nato tutto?

Era inevitabile. Il rap americano stava sbarcando in Italia ed Io avevo l’età giusta pure per essermi rotto le palle di quella che viene chiamata musica per adolescenti. Quando oggi sento dire che una musica è da quindicenni penso che sia quasi un insulto. A quindici anni una persona può sentire e vedere il mondo in maniera diversa da un adulto. Non è che se uno ha una certa età allora deve sentire necessariamente roba di merda. Conosco un sacco di gente che a 15 anni ascolta musica di valore. Io quando ho conosciuto il rap, non era qualcosa di legato alla musica di classifica, anzi. Quella era la musica che piaceva ai miei amici a scuola e magari dava una zona confort, quella di andare tutti dietro allo stesso artista. Quando ho scoperto questa musica m’è cambiata la vita.

E com’è successo?

C’era mio padre che andava in giro per il mondo e mi ha illuminato: guardavo un video e sentivo questa band che faceva rap e mi piaceva tantissimo. Erano all’epoca i Run DMC, e ho chiesto a mio padre cosa fosse. Mi ha risposto: “Questo è rap, è la musica parlata”. E l’impatto per me è stato forte. Era proprio “Walk this Way” e io stavo lì a chiedermi cosa fosse quella roba bellissima. Mio padre mi ha semplicemente spiegato cosa stessi vedendo.

E poi sei diventato Grandi Numeri. Perché questo nome?

In realtà, come io ho dato a Primo Brown il suo nome, lui lo ha dato a me. È uno di quei regali che uno si fa. A volte può essere una condanna. Nel rap diventa anche un marchio di fabbrica. Noi volevamo trovare delle cose che rappresentassero nella maniera più diretta per ciascuno il proprio stile. E questo nome è venuto fuori per caso. È una cosa bella che mi ha dato Primo. All’inizio non avevamo neanche dei veri nomi quando abbiamo iniziato. Poi è andata così.

Della cultura hip-hop hai scelto subito le rime oppure ti sei approcciato allo scratch, alle tag, alla break?

Mah. Qualcosa ho fatto quando ancora non sapevo che avrei fatto rap. Nell’hip-hop sono tante le cose possibili. Avendo un amico DJ ho scoperto come utilizzare un mixer. Anche Primo pensava di fare il DJ quando l’ho conosciuto. E poi ha cambiato scuola, come ad esempio Squarta. Lui è bravo come DJ, ma scrive delle cose che sono grandiose. Quando poi ho sentito le rime di Primo la prima volta mi sono detto che forse era il caso di rappare e metterle in musica.

Invece influenze estranee al mondo rap?

Sicuramente la musica contemporanea americana tutta. Rock, cantautorato, quella del passato, la musica di Bob Marley, la gore, la latino americana. Non parlo ovviamente delle cose che passano alla radio, ma anche la musica d’orchestra. La cumbia! Viaggiando in Sud America ho riscoperto Rubén Blades, uno dei più grandi della musica mondiale. Fece una parte in “Mo’ Better Blues” di Spike Lee. Questo per capire che magari uno è abituato a pensare alle caricature di questa musica come da villaggio turistico, invece parlo musica vera, di gente vera che la fa. Con la cumbia ho conosciuto musicisti di vario spessore e con alcuni ho collaborato quando vivevo là. Con Simón Mejía dei Bomba Estéreo abbiamo composto. Il rap resta il mio cardine, però lavorare con gente come Giuliano Sangiorgi, Roy Paci, Adriano Viterbini è una fortuna perché anche la musica più lontana da noi è sempre un tappeto su cui mi piace scrivere.

Avevate tutti e tre gusti uguali?

No, in verità. Il rap è il comune denominatore, però ognuno veniva da un background diverso. Primo Brown veniva dal rock’n’roll trasmessogli dal padre. Ascoltava anche un sacco di blues. Squarta magari più il rock classico degli anni ’70. Però sì, ci sono tantissime influenze. Poi, anche lavorare con Gabo Centofanti agli arrangiamenti del disco e con Danilo Davelli alla batteria ci ha fatto tirare fuori tantissime cose che erano da prendere in considerazione.

Infatti è un album di grande respiro. A proposito invece dell’evoluzione che ha investito la musica rap in Italia dagli anni ’90 a oggi, si può affermare che le cose sono cambiate. Tu cosa pensi, cosa ascolti?

Ascolto sempre tantissimo. Anche roba differente da quello che faccio io. Sento se un musicista ha delle idee nuove e se riesce a comunicarle. Non mi piace tanto quando vedo un Gué Pequeno o un Marracash, che raccontano un vissuto, copiati da gente che dice di vivere quelle stesse cose. Inevitabilmente, ci sono tanti rapper che iniziano e invece di pensare a lavorare a un’identità, copiano. Alla fine la prerogativa del rap è questa.

Beh, occorre distinguere tra omologazione e appartenenza, mi viene da pensare.

Certo. Chi non capisce questo dettaglio fondamentale, probabilmente perde la cosa più importante della musica che sta facendo. Nel rap non c’è un codice d’onore come per entrare dentro a un club. Ognuno fa rap nel modo che ritiene più autentico, nella proporzione in cui racconta se stesso attraverso quella musica. Ovviamente chi ha 20 anni lo fa in un modo, chi ne ha 30 racconta la vita da un altro punto di vista. Ma nessun rapper può dire a un altro rapper come fare rap.

Mi domando se questo sia un pensiero che hai maturato negli anni.

No, c’è sempre stato. Se guardi le collaborazioni dentro “Lo Spirito che suona”, ci sono artisti come Coez, Gemitaiz, ma pure Gué Pequeno o Salmo o Nitro. Ecco, loro venivano ai nostri concerti. Ma non è che siccome loro sono bravi, noi vorremmo prendercene il merito. Loro sono bravi e basta. Il fatto che ognuno faccia rap in forma diversa non è un limite. Noi questa cosa la capiamo. Volendo fare un disco che è come un testamento alla memoria di Primo c’è subito un bel gruppo di persone che, se pure non fa rap come lo facciamo noi, comunque vuole esserci. Questo è il filo conduttore che ci unisce tutti, l’autenticità.

Certo. Mi domandavo più che altro, se agli esordi fosse tutto più “di pancia”, visto il fatto di doverla costruire un’identità.

Questo è un altro discorso. Quella era una lotta personale all’algoritmo e alla musica fatta a tavolino che con il rap non c’entra niente. Ma in generale, con tutto quel tipo di musica noi non abbiamo mai voluto avere un cazzo a che farci, ma è appunto un altro discorso.

Beh, sì. Allora il discorso lo cambio proprio e ti chiedo qual è il concerto che Grandi Numeri non si può perdere oggi.

Ti dico che c’è questa band colombiana di amici che si chiama Systema Solar. Spaccano. Io credo di aver visto il concerto più bello della mia vita quando ho visto il loro. Sono di Baranquilla, la città dove è nata Shakira. Vatteli a cercare ché sono davvero forti.

E invece un concerto che avrebbe messo d’accordo tutti voi tre?

Non saprei. Un concerto rap, immagino un rap di New York, come i Wu-Tang Clan. Un concerto non rap invece non lo so. È difficile pensare a tutta la musica che ci piace. A parte un concerto dei Cor Veleno, per quello che mi riguarda, boh, Tom Waits? È forte Tom Waits.

Eccome! Invece artiste donne del mondo rap italiano e non?

Nel rap americano c’è tantissima roba. Adesso mi piace tanto l’aggressività e l’attitudine di scrivere di Cardi B. Per quello che riguarda il rap italiano ce ne sono tantissime. Anche Leslie, una rapper italiana esordiente molto brava. Poi, Baby K. Ricordo quando Primo Brown registrava con Baby K quando lei stava all’inizio del suo rap.

Leslie non la conoscevo. Grazie per la dritta. Invece, contaminazioni letterarie e cinematografiche che influenzano la tua scrittura?

Tantissima letteratura contemporanea americana. Riferimenti specifici, non saprei. Leggo di tutto, dai saggi ai romanzi. Mi piace molto Jonathan Lethem, il libro “L’inferno comincia dal giardino” è un libro che mi è piaciuto tanto. Di cinema, invece, ti dico tutta la scuola italiana di cinema che va dal neo-realismo a Fellini, Pasolini per passare poi alla nuova scuola americana dalla fine dei ’60 all’inizio dei ’70. Roba tipo Scorsese, Spielberg. Il cinema è come la musica: è senza confini. Se poi è vero fa molto di più, ti entra dentro.

C’è un ricordo particolare legato a Primo Brown che ti viene in mente e che vorresti raccontarmi?

Molti dei ricordi che ho con Primo vanno a finire sul personale e ci tengo a tenermeli privati. Però ti posso dire che forse la cosa più bella è stata quando abbiamo iniziato a fare ascoltare la nostra musica. Ho il ricordo di quando abbiamo avuto il nostro primo disco fra le mani che è bellissimo. Ma ce ne sono davvero tanti di ricordi che mi legano a lui. Ecco, mi viene in mente anche quando abbiamo intrapreso carriere separate. Quando lui ha realizzato “El Micro de Oro” con Tormento, io ero felice. Vedevo che aveva voglia di fare altra roba, ma anche di continuare a stare con i Cor Veleno. Era bello.

In una parola, cosa ti ha lasciato Primo Brown?

Tutto.

Ultima domanda: Progetti futuri oltre al tour?

È il tour il progetto futuro. Realizzare questo nuovo disco ci ha preso talmente tanto che non vediamo l’ora di portarlo in giro. Sarà un live unico nel suo sviluppo perché vedrà tantissimi ospiti e una forma particolare di portare “Lo Spirito che Suona” in giro per L’Italia. Tra la fine di Dicembre e inizio Gennaio partirà.

Ti saluto sulla scia di questa ghiotta notizia. Nel farlo, ti ringrazio davvero tanto e ti chiedo un’ultimissima cosa. Saluta i nostri lettori con qualcosa che vuoi dire e che non hai ancora detto.

Io auguro a tutti quelli che hanno la possibilità di fare musica, di riuscire a tirare fuori quello che hanno dentro. Di essere più forti di tutto quello che è un sistema a volte complicato, ma bello anche per questo motivo. E sopratutto, se hanno del tempo per ascoltare il nostro ultimo disco, che possano ricordare Primo Brown ancora una volta.