Tre fratelli: Rob, Linnon ed Enra Winston. Il primo è quello alto, il secondo ha i baffi ed il terzo è lo strambo. Così si presentano al mondo i The Winstons, tre anime musiche devote al “culto dell’anarchia ancestrale”. Uscito il 10 Maggio, per AMS Records – storica etichetta prog – “Smith”, è il loro secondo album in studio. Immaginate l’armonia dei The Beatles mescolata alla sferzante cupezza di Roger Waters, al saggio sperimentalismo di Robert Wyatt, alla lucida follia di David Bowie e alla poesia di Syd Barrett. Immaginate “Smith”. Lasciate poi che a condurre l’orecchio sia il vento che porta gli odori di un passato che si scioglie dalle briglie del tempo. Perché “Smith” è un lavoro che in 12 brani raccoglie i fumi della psichedelia 60/70, dà loro un’ autentica forma e li fa letteralmente ballare in territori già esplorati e che pure suonano vergini.
L’intro del disco è squisitamente psycho-prog. Tastiere impazzite e voci tonanti. Basso a dinamite a condurre l’incalzare di “Ghost Town”, l’apripista. Pare prepari l’umore per l’ “adventure time” di “Smith”. Lo stesso Winston di George Orwell, Wiston Smith. Subito, si è immersi dentro foreste verdi e fitte. C’è molta ombra, ma sopra gli alberi alti e le infinite liane batte forte il sole. Lo fa sulle tastiere bianconere che danno un volume vagamente sinistro e drammatico ai toni di “Around the boat”, pezzo dai riverberi prog con i germi della wave. Con Mick Harvey alla voce, “A man happier than you” è un pezzo che ti avvolge, ti rivolta e ti fa volare verso piani ascensionali che sorridono ai Pink Floyd. “Tamarind Smile Apple Pie” è la traccia più lunga del disco.
“Smith” è un lavoro che raccoglie i fumi della psichedelia 60/70, dà loro un’ autentica forma e li fa ballare in territori esplorati e che pure suonano vergini.
La prima in cui l’orizzontalità dei vasti piani musicali padroneggiati da Roberto Dell’Era, Enrico Gabrielli e Lino Gitto – The Winstons – emergono elettrici come petali d’un fiore nutrito nelle ere a suon di rock’n’roll. Sperimentalismo saltellante nei due minuti e mezzo di “Not dosh for Parking Lot”. Siamo nel cuore dell’avventura. Nell’umidità della selva che di colpo traduce l’asfalto in “The Blue Traffic Light”, il pezzo preferito da chi scrive. Suggestivo, a tratti violento per la sua godibilità oltremodo attuale. È come se Winston’s Myth si rivelasse in carne ed ossa e si scoprisse che “Smith” è sempre stato lì. Accanto a te. Dietro la goliardia. Ci si distende, poi, con la bowiana “Blind”. Qui il pianoforte prepara all’esplorazione delle beate maree di “Impotence”, brano che vede il featuring di Richard Sinclair. Ritmica dinamica che emerge e sommerge l’intensa “Soon Everyday”, cambia colore a seconda del mood dei Winstons.
Ecco il prog, ecco il blues. Con una sorta di proto funky tribale, portano le orecchie dentro una calda sala piena di bicchieri vuoti di un whiskey consumato da poco. In punta di piedi e vestito di tulle, “Sintagma” apre i varchi dello spazio siderale. Sfoggia un’incisività strumentale in cui basso e chitarra fanno sesso selvaggio. Vigorosa, a metà tra Beach Boys e Rolling Stones la conclusiva “Rocket belt”, impreziosita dallo spumare di tastiere in sottofondo e da un focoso Nic Cester alla voce. “Smith” trasporta altrove. Né indietro, né avanti. Semplicemente altrove. Veraci e raffinati a un tempo, The Winstons fanno musica viva. «Noi non cesseremo l’esplorazione. E la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere laddove siamo partiti e conoscere quel posto per la prima volta». Questo lo scrisse T.S. Eliot. Ecco, The Winstons ne hanno raccolto il messaggio.