“Sul set devi sempre lasciare aperta una porta. Può entrarvi qualcosa di completamente inatteso”.
(Jean Renoir)
L’idea che un regista non possa mentire alla camera, che la cinepresa dica sempre la verità, che la realtà sia il vero oggetto del suo desiderio, è qualcosa che Bernardo Bertolucci non ha mai scordato. Ancora turbato dalla scomparsa all’età di 77 anni di uno degli ultimi grandi autori del cinema italiano e non solo, mi sono costretto a non tesserne qui le lodi, ma a rendergli un doveroso ringraziamento, scritto di getto guardando all’uomo e al regista. In Bernardo Bertolucci sono sempre stati inscindibili. Il regista parmense è stato il capofila indiscusso della seconda generazione autoriale del cinema italiano, quella che raccoglieva il testimone glorioso dal primo e dal secondo tempo della stagione neorealistica e rilanciava il cinema nostrano verso forme e, soprattutto, verso un pensiero del fare cinema nuovi e coraggiosi.
Figlio di una politica degli esordi che all’inizio degli anni sessanta consentì a giovani registi di essere tenuti a battesimo dietro la macchina da presa, Bernardo Bertolucci è stato più di tutti il poeta, il tessitore di un amore per il cinema che non è stato nient’alto che la declinazione a lui più congeniale di un rapporto amoroso con la vita e con la gente. A chi gli chiedeva quale fosse la sua professione, lui rispondeva che era innamorarsi sempre di ciò che era di fronte alla camera. Bernardo Bertolucci ha estratto dal flusso del loro uso quotidiano l’inatteso, il desiderio, il godimento, l’amore. E li ha reinterrogati in profondità. Gli appigli esistenziali si sono fatti successivamente stile registico. Non si può capire il suo cinema limitandolo al contesto di cinefilia della Nouvelle Vague di cui era stato ammiratore e, in qualche modo, promulgatore.
Bernardo Bertolucci è stato più di tutti il poeta, il tessitore di un amore per il cinema che non è stato nient’alto che la declinazionedi un rapporto amoroso con la vita.
“La commare secca” (1962), il suo primo film tratto da un racconto di Pier Paolo Pasolini, di cui era stato assistente, e “Partner” (1968), probabilmente il suo film meno riuscito e più vessato dall’estetica del tempo, prediligono ancora l’astrazione tipica dell’autobiografismo dei giovani cineasti, prima francesi e poi italiani, di quegli anni. Ma è soprattutto nel film che sta nel mezzo, “Prima della rivoluzione” (1964), che la vita del regista si lega alla scena in una maniera stretta e difficile. Il racconto di formazione narra il passaggio dall’età adulta e codifica la gioventù come il periodo più significativo dell’esistenza. È un film incestuoso, pieno di personalismi e intellettualismi affascinanti che fecero esplodere sotto la luce del merito quello che sarebbe stato uno dei più grandi registi del cinema. Superata la “rivoluzione” del ’68 l’uomo cedette il passo al regista, e nacquero due grandi capolavori.
Girati uno nella pausa di montaggio dell’altro, “Strategia del ragno” e “Il conformista”, entrambi del 1970, mi inseguono ancora oggi con la loro perfezione visiva. Le immagini strabordano di assennata poesia. Il discorso, il “cinema di parola” di cui Bernardo Bertolucci si era fatto portavoce in Italia, viene assopito nella fretta produttiva. Ma la mancanza di tempo per ragionare sulla scrittura fa guadagnare potenza alla ripresa. L’impeto e l’istinto scavalcano la riflessione e la ragione, assicurando all’immagine un’immediatezza e un turbamento che difficilmente troveranno eguali. Solo per citarne una, la scena di un brutale omicidio tra i boschi innevati conferisce l’eccellenza a “Il conformista”, esempio perfetto di film teso tra lo spettacolo e la riflessione. La bellezza delle scelte figurative non è qui, né è mai stata in Bernardo Bertolucci, fine a se stessa. È sempre stata il filtro e il reagente con cui fare luce sulla sostanza del discorso.
L’aura mitica di Bernardo Bertolucci crebbe perdurando fino ad oggi, anche se macchiata da una recente dichiarazione di violenza non simulata.
La consacrazione internazionale arriva nel 1972 con “Ultimo tango a Parigi”, che scandalizzò la censura, più che il pubblico. Le copie originali furono distrutte, il regista fu condannato a due mesi di prigione, e per dieci anni non fu possibile vederlo. Ma la sua aura mitica crebbe perdurando fino ad oggi, anche se macchiata da una recente dichiarazione di violenza non simulata di cui Bernardo Bertolucci ancora si vergognava. Il tuffo nella sessualità sconfinata porta alla morte, ma anche alla rinascita e, con “Novecento” (1976), a una nuova possibilità di confronto. Quest’ultimo film, il più lungo della storia italiana, esalta in una dimensione corale il comune sentire che è alla radice della nostra storia presente. Gli opposti si toccano, le ideologie si confrontano e i sentimenti rilanciano gli interrogativi sulla funzione sociale di un regista. Dopo averlo visto, l’indole vitale e mortifera di certe scene mi accompagnò scomodamente per giorni.
La perdita dei diritti civili per la vicenda di “Ultimo tango a Parigi” precipitò Bernardo Bertolucci nel bisogno di distaccarsi dall’Italia. Il regista trovò aria nuova girando il mondo per quindici anni e realizzando sontuose metafore della propria anima. L’intreccio rinnovato di storia, memoria, coscienza e desiderio in “L’ultimo imperatore” (1987), kolossal d’autore che ottenne due Oscar tra cui quello al miglior regista, fece di Bernardo Bertolucci l’unico italiano vincitore del prestigioso premio, nonché l’unico cineasta a cui sia mai stato concesso di girare nella Città Proibita. Poi arrivò il lirismo del rinnovamento spirituale del “Piccolo Buddha” (1993), seguito alla tematizzazione stessa del viaggiare come smarrimento e rigenerazione de “Il tè nel deserto” (1990). Questo film occupa un posto privilegiato nel mio cuore per la sua sconcertante perfezione. Ambiente, musica e racconto proiettano reale e immaginato su un viaggio nel tempo e nello spazio, più che nell’avventura: l’intimità nella vastità del deserto.
Prima di rivolgere la cinepresa all’Altro, Bernardo Bertolucci, con un atto di sincerità purissima, l’ha rivolta a se stesso.
Negli anni Bernardo Bertolucci seminò tra i grandi titoli altre opere minori. Dal dialogo edipico tra femminilità e maternità di “La luna” (1979) allo scontro tra padre e figlio del giallo “La tragedia di un uomo ridicolo” (1981), fino alla riscoperta del paesaggio italiano attraverso gli occhi di una straniera in “Io ballo da sola” (1996). Il nuovo millennio portò a “The dreamers” (2003) e all’introspezione personale, generazionale, coraggiosamente depurata da alibi e al contempo capace di riproporre la fascinazione del e per il cinema di una vita d’artista. Poi la malattia, del corpo ma anche dell’arte, lo allontanarono dal set. Il mondo cambiava, cambiava la capacità di pensarlo attraverso lo schermo. E il modo del regista, la sua autenticità, diventarono fuori moda. Dopo nove anni, tornò per chiudersi e per chiuderci con lui nella trasposizione intima, volutamente piccola, del romanzo di Niccolò Ammaniti “Io e te” (2012).
Ora, mentre contempliamo il grande vuoto lasciato, ripenso ai suoi film, a tutti i suoi film. A quelli sin da subito scolpiti nella mente, ma anche a quelli che inutilmente ho cercato di rimuovere per quanto mi avevano turbato. A Bernardo Bertolucci, premiato nel 2007 con il Leone d’oro alla carriera e nel 2011 con la Palma onoraria, si possono muovere critiche, alcune ragionevoli, altre dettate dal gusto personale – io stesso ne ho per molte sue opere – ma certamente non si può dire che si sia sottratto al Cinema. Prima di rivolgere la cinepresa all’Altro, Bernardo Bertolucci, con un atto di sincerità purissima, l’ha rivolta a se stesso, ai chiaroscuri della sua persona. Viaggiare nella sua opera ha significato e significherà sempre incontrare un modo di pensare e di vivere il cinema in un’osmosi di arte e vita che gli è appartenuta dagli esordi fino alla fine.