Il nuovo lungometraggio di Edoardo De Angelis si apre con l’immagine di una ragazza vestita in bianco, sospesa nelle fredde acque del fiume Volturno. La candida figura viene sporcata dalla presenza di rifiuti galleggianti e dai motoscafi con a bordo rudi pescatori venuti a salvarla. La scena rimanda all’Ophelia del preraffaellita Millais, ma sopratutto alla favola, come l’atmosfera regnante per tutto il film “Il vizio della speranza”. De Angelis non è nuovo nel narrare storie tanto realistiche quanto fantastiche. Abitate da personaggi, citando il genio di Scola, brutti, sporchi e cattivi. Che ruotano attorno a protagoniste solitamente pure, armoniose, vittime di un contesto abitativo cupo e costernato. Come nel “Dogman” di Garrone, Castel Volturno è l’ambientazione scelta da sfondo alla nuova favola di De Angelis. Un non-luogo spento e appartato, con delle proprie regole vigenti e una comunità in continua lotta per vivere una vita dignitosa.
In questa terra di nessuno abita Maria, una giovane ragazza che passa le giornate tra l’accudimento della madre e al servizio della caparbia Zi’Mari. Accompagnata sempre dal suo fedele pit bull, il suo compito consiste nel trasportare donne a partorire, perché usate per un contrabbando di adozioni illegali. Quando un evento fortuito le farà ritrovare una speranza nella vita, Maria cercherà in tutti i modi di abbandonare la sua condizione. Nel suo percorso si imbatterà in Virgin, una bambina africana che abita dentro una comunità di prostitute, e Carlo Pengue, un ex-giostraio vistosi togliere tutto dalla vita. In questi due personaggi Maria riuscirà a rivedere un’umanità dimenticata, e di traverso, una possibile famiglia putativa. La speranza nutrita dalla ragazza, però, non è un sentimento comune alle persone da cui è legata e cresciuta. La sua sarà un’odissea morale, e farà i conti con la direzione della propria esistenza.
“Il vizio della speranza” di Edoardo De Angelis, una delle poche pellicole italiane selezionate alla Festa del Cinema di Roma, si conferma una buona prova dal punto di vista formale.
De Angelis, nuovamente, ci racconta una storia di sfruttamento dalla prospettiva della vittima. Come per le due gemelle siamesi di “Indivisbili”, la famiglia non detiene in sé il suo candore tipico, ma una fucina di malesseri e tedio che andranno a minare la rivalsa personale della protagonista. Maria, ugualmente a Viola e Daisy, non vuole più stare alle regole di questo gioco perverso, e la fuga è il veicolo che permette la realizzazione del loro sentimento di libertà. “La libertà è un campo vuoto”, afferma Zi’Mari alla ragazza, per confermare l’esistenza di uno scarto incolmabile tra la sua condizione attuale e la possibilità di una vita migliore.
“Il vizio della speranza”, una delle poche pellicole italiane selezionate alla Festa del Cinema di Roma, si conferma una buona prova dal punto di vista formale. Mentre sul piano tematico staziona su un messaggio ridondante, forse eccessivamente legato alla morale cattolica. Davanti al film di De Angelis, sembra di trovarci di fronte ad una parabola a metà strada tra la religione e la favola. Dove per la seconda il risultato porta a compimento una poetica già sapientemente ascritta dall’autore, la prima trasporta un messaggio fin troppo esibito. Questo comunque non danneggia le intenzioni di De Angelis, che riesce ancora una volta a raccontare la contemporaneità, dove il dramma del reale è rivestito con i toni formali delicati della favola.