Luca Chiappara è uno degli Upright Bass players più richiesti nella scena musicale europea. Ha suonato con artisti leggendari come James Intveld, Dale Watson, Bill Kirchen, Deke Dickerson, Chris Casello e Slim Jim Phantom (Stray Cats) in tutta Europa e negli Stati Uniti.
Dopo sette anni di band ha deciso di pubblicare il suo primo disco da solista. Where I Belong. Un omaggio genuino e originale alla musica tradizionale americana e alle persone che ha incontrato in questi primi anni di carriera.
Buongiorno Luca, iniziamo l’intervista con una domanda molto precisa: il ricordo più forte legato alla musica?
Grazie a voi per lo spazio, il piacere è mio! Uno dei ricordi che più porto nel cuore è un momento da spettatore. Nell’estate 2012, per una serie fortunata di eventi, un amico mi regala un biglietto per il concerto di Springsteen a Londra. Il concerto è stato incredibile dall’inizio alla fine (in apertura c’era addirittura John Fogerty, Tom Morello e tanti altri).
Il carisma di Springsteen sul palco è fuori dal normale e ogni spettatore ha continuamente la sensazione che ogni canzone sia dedicata a lui. Per il finale, dopo più di tre ore di concerto, sale sul palco Paul McCartney, ma appena scatta la mezzanotte interviene la polizia londinese e stacca la corrente al festival. Ci è voluto qualche minuto per capire cosa fosse successo, ma poi Springsteen è tornato in scena e con i soli volumi, suona un’ultima canzone della buonanotte solo chitarra e voce.
Saremmo stati in decine di migliaia ad Hyde Park in quel momento. Tutti in religioso silenzio con il fiato sospeso. Quello è stato forse il momento in cui ho capito quanto la musica (e un personaggio così carismatico) possano unire una folla. Inutile dirlo, sull’ultimo accordo si è scatenato l’inferno. È stata una scarica di adrenalina collettiva. Ancora mi viene la pelle d’oca a pensarci, eravamo davvero un’entità unica.
Il genere musicale è decisamente diverso dagli standard moderni. Prima di parlarcene, vuoi raccontarci come nasce la passione per questo genere?
Mi sono trasferito dal Piemonte in Sicilia alla fine delle scuole superiori. Lì ho scoperto un modo di gestire l’intrattenimento notturno totalmente diverso da quello a cui ero abituato. Dal momento che l’estate dura più a lungo, la maggior parte dei locali siciliani ha uno spazio piccolo all’interno e uno sbocco sulla strada abbastanza ampio.
Nelle zone più turistiche una band ti permette di attirare l’attenzione dei passanti e farli fermare davanti al tuo locale. E qual è il genere che trasversalmente piace di più al pubblico spensierato che esce per fare festa? Il rockabilly o il rock’n’roll anni 50. Piace a giovani, anziani, metallari, discotecari… Piace perché è un genere spensierato. È legato ad un immaginario forte e il ritmo è quasi sempre coinvolgente. Io non lo conoscevo all’epoca, ma ho iniziato a suonare con una rockabilly band locale a cui mancava il contrabbassista e da lì è stato amore a prima vista.
Ovviamente dietro Elvis, la brillantina e i jeans con i risvolti c’è un mondo. E se sei appassionato di quello che fai inizi a scavare e scopri che nella musica di Elvis, Bill Haley, Chuck Berry & co. ci sono il blues, il country, il jazz tradizionale, il gospel, il bluegrass… Tutti generi che il rockabilly ha sintetizzato a suo modo e in cui mi sono specializzato negli anni.
Quali sono stati gli artisti di riferimento?
Di artisti di riferimento ce ne sono tanti e da ognuno mi piace prendere qualcosa. Come contrabbassista ci sono sicuramente Bob Moore e Willie Dixon, due dei contrabbassisti più registrati in assoluto, uno nella musica country e uno nel blues. Come autore mi ispiro tanto ad autori classici dell’epoca d’oro dello swing, Cole Porter su tutti (anche se lui è decisamente irraggiungibile, ma è bello puntare in alto).
Per la gestione degli arrangiamenti e l’accuratezza dei suoni mi ispiro molto a James Intveld, artista contemporaneo con cui ho avuto la fortuna di fare tournée e da cui cerco continuamente di imparare l’attenzione per i dettagli.
Per la gestione dello spettacolo live la migliore ispirazione rimane Diego Geraci, con cui ho fondato il trio (Don Diego Trio) che mi ha visto on the road per più di sette anni e sette dischi tra Europa e Stati Uniti, lui rimane per me uno dei migliori entertainer con cui abbia mai avuto a che fare.
Ora parliamo di Luca Chiappara. Come abbiamo detto la sua musica è decisamente fuori standard per i canoni attuali. Come cerca di rapportarsi con il mercato attuale?
Quello del parlare a un pubblico contemporaneo è l’eterna questione nella scena musicale definita Roots. È meglio cercare di rimanere autentici e rispettare la tradizione o cercare nuove vie per arricchire il sound? Mi piacciono entrambi gli approcci e cerco di giocare sulla linea di confine. Però ammetto che la musica che trovo più interessante è quella tradizionale che in qualche modo si affaccia a un pubblico nuovo, mi vengono in mente Black Keys, Jack White, JD McPherson, Jason Isbell.
Quando ascolti un loro disco lo apprezzi perché hanno la genuinità e il potere comunicativo della musica di una volta, ma ne senti il respiro dell’epoca che viviamo. In I Wish, il singolo del mio ultimo disco ho cercato di fare lo stesso. Ho registrato tutto su nastro con microfoni degli anni 60 in uno studio rigorosamente vintage (Retro Recording Service di Milano), ma nel processo compositivo e di post-produzione mi sono concesso delle libertà che andassero in senso opposto.
Quanto è importante per un musicista seguire la sua vena musicale piuttosto che il mercato?
Faccio parte di una nicchia, mi piace questo genere e ci lavoro ormai da anni. Seguire il mercato è una sfida difficile che sicuramente ripaga (se sei quella persona su un milione che ce la fa), ma ti costringe a troppi compromessi che secondo me ti tolgono il piacere del viaggio.
Per me chi decide di vivere di musica lo fa perché prova gioia nel suonare, non perché cerchi la fama. Per questo preferisco sempre fare una cosa che mi piace e che mi diverte. Ovviamente col tempo ho imparato a gestire i compromessi, anche perché suono per un pubblico. Ed è giusto cercare dialogare col pubblico che cambia nel tempo e negli interessi. Ma l’unica cosa che non sono disposto a perdere è proprio la gioia di suonare. Se una scelta mi richiede più tempo al computer o sui social che sul palco, inizio a farmi qualche domanda.
E poi il mercato cambia in continuazione, nel tempo e nello spazio. Come musicisti possiamo sfruttare quanto meno la geografia a nostro favore, cercando di rivolgerci ad un mercato che è più incline a quello che suoniamo.
Mi parli del futuro, ci saranno nuovi album?
Il mio ultimo disco è uscito da troppo poco (Maggio 2022) per pensare ad una nuova uscita adesso! Ovviamente scherzo. Ho iniziato a pensare al seguito di Where I Belong nel giorno in cui ho finito le registrazioni.
Sento di avere un conto in sospeso con me stesso, ci sono molte cose che rifarei diversamente o sound su cui mi concentrerei a discapito di altri. Il bello del procedimento creativo è che non finisci mai di crescere e di cambiare opinione, quindi sto già lavorando a dei pezzi per un prossimo disco, ma chissà quando uscirà.
Intanto mi occupo della promozione di questo. E poi a più ampio respiro, c’è sempre il progetto da cui lavoro da ormai tre anni a questa parte che è quello di trasferirmi definitivamente negli Stati Uniti. Al di là dei pezzi che scrivo, mi piace lavorare come sideman al contrabbasso e nell’autunno prossimo – se gli astri si allineano – dovrei tornare a Nashville per riprendere la mia attività di sideman.
Grazie per averci prestato un po’ del vostro tempo. Le lascio le ultime righe per aggiungere qualcosa che magari ci e sfuggito… A presto!
Grazie a voi, è stato un piacere rispondere a queste domande! A chi ci legge consiglio di passare una bella estate piena di ascolti nuovi, ascolti critici, magari regalandosi un disco alla settimana e ascoltandolo allo sfinimento in modo da conoscerlo in tutte le sue sfaccettature. Meno playlists e più album! Ed ecco, magari uno di questi album potrebbe proprio essere il mio Where I Belong.