Diretto da Wash Westmoreland, “Colette” è basato sulla vera storia di Sidonie-Gabrielle Colette (Keira Knightley), che, con lo pseudonimo Colette, è diventata una delle più famose scrittrici francesi. Certamente, vista la resistenza dell’ordine patriarcale, ci è voluto un po’ prima che le persone si rendessero conto che ci fosse una scrittrice dietro il personaggio di Claudine, un’originale it girl la cui crescita venne narrata in quattro romanzi, un tempo scandalosamente sensuali, pubblicati nei primi anni del secolo scorso sotto il nome di suo marito Willy (Dominic West). Questa vivace declinazione registica ci serve sul piatto dello schermo scandali, stile e modelli di liberazione in stile Belle Époque. Claudine fa incetta di amanti, uomini e donne e, al di fuori dei libri, è diventato un fenomeno parigino che ha ispirato la moda e i costumi delle giovani d’inizio Novecento.
“Colette” sembra un’apologia dell’ispirazione. Il personaggio libertino di Claudine ispira la sua creatrice indirizzandola verso le stesse passioni infuse nell’alter ego letterario. E, a cascata, si ha l’impressione che anche il film segua un percorso scritto dal suo personaggio principale. “Colette” sfila con fierezza nei salotti e nei teatri, nelle case di campagna e al Moulin Rouge e prende per mano la sua omonima protagonista mentre si muove lentamente nella propria vita. Allo stesso modo Willy è l’equivalente di un influencer del tardo diciannovesimo secolo, un decadente dongiovanni che presiede una scuderia di ghostwriter che macinano per lui articoli e romanzi. L’uomo si è costruito una reputazione e con questa vive. Ma ovviamente un uomo simile ha bisogno di una moglie. È qui che subentra Colette, che da tutta la vita ammira Willy e desidera unirsi a lui nella sua favolosa esistenza parigina. Perciò lo segue senza esitare.
Colette riesce ben presto a divincolarsi dalla gabbia dorata in cui si è costruita da sola.
In tutta la prima parte del film rimaniamo ancorati alla logica imperante della subalternità sessuale. I due interpreti formano un duo coniugale spinosamente comico giocato sulla scena iniziale di una evidente imparità. Per fortuna Colette riesce presto a divincolarsi dalla gabbia dorata in cui si è rinchiusa da sola. Nonostante le ristrettezze finanziarie, Willy scialacqua generosamente ciò che resta in alcol e amanti. Addirittura, quando viene colto in flagrante con una prostituta, tenta di rabbonire l’ingenua Colette con la promessa di prenderle un cane. Ormai però, disillusa dalle abitudini del marito, la donna è pronta a incamminarsi nel mondo lungo una propria strada. Willy le chiede di provare a dargli una mano scrivendo per lui. Lei accetta e, con sua stessa sorpresa, scopre che le piace e le basta. Almeno fino a quando il marito legge il suo lavoro e lo boccia, ritenendolo troppo stucchevole, zeppo di aggettivi e femminile.
Il romanzo di Colette rimane chiuso nella scrivania del marito finché un debito non lo costringe a cercare di venderlo. “Claudine a scuola”, storia di una ragazza determinata a superare il villaggio in cui è nata, è uno specchio esistenziale per le lettrici che si rivedono nel personaggio che Colette ha creato. Nell’ordito di modernità e consumismo in cui viviamo, siamo avvicinati all’idea che la Storia sia una traiettoria in avanti per il progresso. Ma questa è solo un’idea di comodo, tant’è che “Colette” propone l’esatto contrario: la storia è ciclica. All’inizio del ‘900 Parigi era un terreno fertile per idee, arte e creatività molto simile alle metropoli contemporanee. Basta guardare Missy (Denise Gough), l’amante di Colette nella seconda parte, una vera figura storica dell’aristocrazia francese. Come nipote di Napoleone III, la donna poteva permettersi di divorziare dal marito e indossare abiti da uomo in pubblico.
“Colette” lavora nelle aree grigie della complessa intersezione di classe, genere e razza.
Una prima sperimentazione di genere e identità consentita solo ai ricchi, a coloro che avevano già assicurato la propria posizione sociale. Missy non è veramente accettata. Quella che la società conservatrice riserva alle persone non conformi è, al massimo, tolleranza. Willy a un certo punto dice che le parole sono sia maschili che femminili, eppure non c’è parola per Missy. Perfino il rapporto tra Colette e il marito sfiora i confini della moralità borghese, senza peraltro mai sfuggirgli. Sì, entrambi possono avere degli amanti, ma Willy accetta questa parità solo perché non considera le amanti della moglie una minaccia alla propria mascolinità. Rispecchiando il turbamento e il cambiamento sociale, il guardaroba della protagonista spazia didascalicamente da abiti coloratissimi a eleganti gonne e giacche fatte su misura. Ugualmente, le trecce, segno di una femminilità ben educata, vengono tagliate in un caschetto androgino: il corpo diventa simbolo d’avanguardia della donna moderna.
La storia di una donna che trova una voce propria e lotta per essere ascoltata nel mondo maschile è di quelle che concedono ovvi paralleli con l’oggi. Leggendo le prime recensioni di Claudine, Willy esclama che ci voleva un uomo straordinario per formare questa giovane donna moderna. Una frase che si potrebbe leggere su molti magazine attuali. Il coinvolgimento dello spettatore non proviene solo dal riscatto della protagonista e dal suo inaspettato successo. Lontano dalla forma della predica per signore, “Colette” lavora nelle aree grigie, esaminando la complessa intersezione di classe, genere e razza. Keira Knightley modula la recitazione dalla timidezza dei primi giorni parigini alla fierezza dell’ascesa come flapper e, infine, alla probabile accettazione di una reputazione scandalosa. Il risultato è un film arguto e stimolante capace di farci dubitare di ciò che sappiamo del passato e di come si insinua nel nostro presente. E forse nel nostro futuro.