LA DONNA ELETTRICA racconta la resistenza civile e naturale contro le industrie
Una scena de “La donna elettrica” con Halldóra Geirharðsdóttir.

LA DONNA ELETTRICA racconta la resistenza civile e naturale contro le industrie

In una delle ultime recensioni parlavamo della pratica tipicamente americana di riadattare per il gusto yankee piccoli film internazionali. Ebbene, è proprio di due giorni fa la notizia che la seconda regia dell’islandese Benedikt Erlingsson, “La donna elettrica”, avrà un remake hollywoodiano con protagonista Jodie Foster. Pur tacendo il pregiudizio, si rischia stavolta di realizzare la seconda versione di “Erin Brockovich”, la donna tosta e a tutto tondo che divenne quasi un simbolo della lotta allo strapotere delle multinazionali. Perché sì, questo film europeo ha molto in comune con quello di Steven Soderbergh, ma riesce a trovare un ampio margine di originalità nella messinscena e nel doppio registro narrativo. Dopo “Horses and Men” del 2013 con questo nuovo lavoro, presentato alla Semaine de la critique dell’ultimo Festival di Cannes, il regista produce una miscela intelligente di racconto eroico e dramma umano tenuti insieme da un’ironia costante e sottile.

Halla (Halldóra Geirharðsdóttir) è una cinquantenne single e indipendente che dietro le quinte di una tranquilla routine conduce una feroce lotta per la salvaguardia dell’ambiente islandese. Conosciuta con il nome di battaglia di Donna della montagna, Halla persegue una guerra segreta contro l’industria locale dell’alluminio. Con azioni sempre più audaci che detonano dal vandalismo spicciolo al radicale sabotaggio industriale, Halla è già riuscita a fermare i negoziati tra il governo e una multinazionale per la costruzione di una nuova fonderia. Ma, mentre sta sviluppando la sua operazione più grande e più coraggiosa, riceve una lettera che cambierà tutto: la sua domanda di adozione è stata finalmente accettata e una bambina la sta aspettando in Ucraina. Halla si prepara ad abbandonare il suo ruolo di sabotatrice e protettrice delle Highlands per realizzare il suo sogno di maternità. Tuttavia, decide di preparare un attacco per infliggere un colpo fatale e definitivo all’industria.

“La donna elettrica”, avrà un remake hollywoodiano con protagonista Jodie Foster.

Tutto inizia nella solitudine delle lande nordiche dove Halla, arco in mano e faretra a spalla, scaglia una freccia contro un enorme cavo elettrico che riga il paesaggio. Qualche istante dopo fugge, braccata da un elicottero della polizia che riesce a seminare con l’inaspettato intervento di un cugino contadino (Jóhann Sigurðarson). Apprendiamo in questa occasione che la donna, vera e propria amazzone ecologista e insegnante di canto nella vita quotidiana, è già alla sua quinta azione di intralcio. Halla non fa parte di un’organizzazione, ma è una donna che combatte per una causa che crede giusta. I ritratti di Mahatma Gandhi e Nelson Mandela campeggiano nel suo appartamento in una città che attraversa in bicicletta e dove incontra la gemella Ása (interpretata dalla stessa attrice) che insegna yoga. In dieci minuti, il regista ha gettato le basi del suo film: una critica all’industrializzazione dell’Islanda avanzata con stile calmo e folle.

I film nordici raramente tradiscono la loro reputazione di eccentricità, né mancano l’occasione di passare in rassegna, esaltando e criticando, i loro territori. E sono proprio questi due atti di fede a definire il valore de “La donna elettrica”: la sua protagonista e la sua messa in scena. Halldóra Geirharðsdóttir riesce a impugnare le armi con rispetto e tranquillità costanti, senza rinunciarvi mai, neppure quando è perseguita da droni ed elicotteri. Le autorità e i media la presentano come una terrorista, ma lo spettatore, grazie al talento dell’attrice, la vede in modo diverso. Di Halla, donna enigmatica, gentile e tenace, si apprezzano proprio i contrasti caratteriali e la caparbietà dei suoi intenti, condivisi o meno che siano. Contribuisce al merito interpretativo la facilità sconcertante con cui l’attrice passa dall’impeto di Halla a quello della gemella ignara della sua lotta, iniettando ulteriore singolarità al loro rapporto familiare.

Ne “La donna elettrica” la regia di Benedikt Erlingsson affida all’unicità del paesaggio un posto di rilievo.

L’altro pilastro della lode è la regia di Benedikt Erlingsson che affida all’unicità del paesaggio un posto di rilievo. Eppure, questo è lontano dall’essere un mero fondale ambientale, perché la cinepresa mira a comunicare la preziosità di quel mondo, e quindi l’importanza della lotta della protagonista. Durante le sue azioni Halla diventa parte di quella natura, scivola nei ghiacciai, si nasconde in una pelle di pecora, scala le montagne. Ciò per cui lotta corrisponde a quello che in lei lotta. Contrariamente a quanto dicono gli organi ufficiali la sua battaglia non è violenta, ma intende mostrare la minaccia imminente che si nasconde dietro all’inconsapevolezza e all’irresponsabilità delle azioni umane. L’apparente racconto civile è solo il primo strato di un film virtuoso, classicamente improprio e coraggiosamente sperimentale. Il lato autoriale si inorgoglisce nell’umorismo teatrale e affida a dei musicisti il compito di seguire il personaggio principale.

Come un autentico coro greco la compagine canora commenta decisioni e azioni dell’eroina vichinga, palesando la finzione e la simbologia del tutto. Funziona ugualmente la gag di un turista straniero che per tutto il film si ritrova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Opera ecologista, commedia parodica, dramma civile, “La donna elettrica” si destreggia tra i generi e attribuisce una variante insolita a ciascuno di essi. Il film pullula di idee gioiose che, pur tenute insieme con palesata artificiosità, definiscono un film sinestetico. I droni cavalcano un paesaggio in cui pascolano greggi, ma alle tecnologie militari, Halla risponde con attrezzature rudimentali. Le sue azioni invitano alla resistenza civile e naturale contro l’avidità industriale e lanciano un messaggio femminista col coraggio e la libertà quali valori cardine. Infine, con una sottile svolta finale, il film aggiunge un’ulteriore pietra al suo edificio, rendendo la solidarietà una condizione necessaria per qualsiasi protesta.