Il cinema ha sempre celebrato le combinazioni improbabili. Amori, amicizie, scontri, fugaci o duraturi, hanno riempito gli schermi ribadendo l’importanza dell’incontro. Nulla di nuovo verrebbe da pensare, eppure “La forma dell’acqua”, ultimo film del regista messicano-hollywoodiano Guillermo del Toro (rivoluzionario Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia), vive alle soglie dell’originalità visiva, sorprendente e purissima.
Baltimora, 1962. Elisa (Sally Hawkins) è una giovane ragazza muta che lavora come donna delle pulizie in un centro governativo americano dove si fanno esperimenti scientifici segretissimi. È stata da poco ritrovata in Amazzonia una creatura anfibia, metà uomo-metà pesce, che ora viene tenuta prigioniera e torturata. Gli anni della narrazione sono quelli della Guerra Fredda, nel pieno della corsa alla novità scientifica che sancisca la supremazia degli americani sui sovietici. Come già capitato nel più noto “Il labirinto del fauno” (2006) e nel più bello “La spina del diavolo” (2001), l’ambientazione storica si mescola alla finzione per generare un ibrido favolistico, inscindibile nelle sue componenti.
È un’opera magnifica questa di Guillermo del Toro, negli intenti e nei risultati. La fascinazione per la diversità muove la macchina da presa cos’ come agita l’anima della protagonista. Nella parte alta del discorso c’è la solidarietà per e tra gli emarginati, rappresentati come a campione dal vicino omosessuale di Elisa (Richard Jenkis) e dall’amica nera (Octavia Spencer), a creare un consesso gravitante intorno al mostro, vittima del sadico colonnello Strickland (Michael Shannon). L’atmosfera classica del monster movie della Universal (“Il mostro della laguna nera” di Jack Arnold del 1954) viene adattata dal regista al contesto attuale, infondendovi una credibilità drammatica imprevista, capace di far dimenticare la premessa della voce off iniziale che ci ha introdotti in questa “storia incredibile”.
“La forma dell’acqua” di Guillermo del Toro vive alle soglie dell’originalità visiva, sorprendente e purissima.
La fiaba horror ripropone l’impronta visiva deltoriana più tipica, declinata in movimenti di camera fluidi e in sinestesie fondenti che uniscono attimi di umana tenerezza a sbalzi di meschinità antropica. Le tinte fredde, degradate nei verdi e nei blu, si macchiano di vermigli momenti gore, replicando anche nei cromatismi le continue oscillazioni emotive della trama onirica e cinica. Dall’amplesso subacqueo consumato all’interno del bagno di casa si varia su ritmi noir, scanditi dalle ossessioni temporali del regista fatte di orologi, uova sode e pagine di calendario.
Sorprende l’erotismo tenero, velatamente esplicito, dell’unione chimerica tra Elisa e la creatura, e con cui viene inscenata non una storia d’amore disneyano, ma una pulsante e desiderante (in tal senso più vicina a “King Kong” che a “La bella e la bestia”). A Sally Hawkins, eccezionale talento inglese, il compito di indicizzare le emozioni: privata della voce, la solitudine di Elisa passa attraverso il corpo, fino a farci sentire come avvolti in un abbraccio sincero per tutto il tempo. Il film di Guillermo del Toro è un atto d’amore per il cinema puntato dritto al cuore. Una dichiarazione praticata con mezzi old school, senza pretese intellettuali ma con sicura resa cinematografica, e capace di soddisfare tanto la visione rilassata, quanto di stimolare la curiosità cinefila.