Alla presentazione romana del programma veneziano, il direttore Barbera aveva detto sorridendo che sarebbe stato facile mettere in Concorso un film come quello di Pablo Trapero. Sarebbe stato facile, sarebbe stato giusto. E invece “La Quietud” è stato destinato all’out competition, ma di questa negata arena competitiva non può che beneficiarne e permettersi di guardare dall’alto dei suoi meriti – e sono tanti – molti degli altri film visti finora. Diversissimo dal suo film precedente (“Il clan” che nel 2016 brillava per superiorità ma sfiorò soltanto il Leone d’oro) eppure legato ad esso dal contesto familiare, il nuovo film di Pablo Trapero si allinea per coerenza tematica e stilistica alle pellicole precedenti del regista, tutte degne di nota (“Leonera”, “Carancho”, “Elefante Blanco”).
Eugenia (Bérénice Bejo) e Mia (Martina Gusman) sono due sorelle legatissime nonostante le grandi diversità. Dopo anni di distanza si rincontrano nella tenuta di famiglia, “La Queitud”, una magione immersa nella campagna di Buenos Aires. Il motivo del ritrovo è drammatico: il padre, a cui Mia è molto legata, ha avuto un ictus improvviso che lo ha ridotto in coma. L’uomo viene ospedalizzato, ma la situazione non lascia speranze e dovrà essere assistito a casa. Qui, la matriarca Esmeralda (un’avvincente Graciela Borges) diluisce i propri umori nel vino e nelle sigarette.
Rancori passati e segreti a lungo taciuti esplodono tra le mura della villa familiare La Quietud, in cui cominciano a risuonare orgasmi e ventilatori meccanici, e dove la luce va e viene.
Pablo Trapero scrive e dirige un ritratto familiare audace, ribaltando il segno maschile de “Il Clan” e affidando a un triangolo femminile tutto il peso valoroso del suo film. Molto articolato nelle relazioni parentali che vedono la madre essere affettuosa con Eugenia da sempre, ancor più quando le dice di essere incinta, ma dura e impietosa con la primogenita. I motivi verranno a galla, in un sottofondo eziologico fatto di storia (quella della dittatura), di violenza domestica e di responsabilità penali.
Sceneggiato con cura, “La Quietud” sovrappone e incrocia più direzioni, passando in rassegna l’intero albero familiare, ramificandolo nei legami coniugali e nei tradimenti, annaffiandolo con delle scomode verità circa l’amore e l’affetto familiare che diamo per scontato (o peggio dovuto). Il tronco più robusto è quello formato dalle due protagoniste, piantato e trapiantato al di qua e al di là dell’oceano (la famiglia si è trasferita a Parigi, città in cui Eugenia ancora vive col marito, negli anni militarizzati di Videla). Curiosamente simili nell’aspetto, le due sorelle condividono lo stesso passato fatto di cotte e fantasie adolescenziali, ma anche il presente le vede vicine più del consentito carnale, del morale e del politicamente corretto. Dormono insieme, si abbracciano, fanno anche altro. Fino a condividere amanti, mariti e un sogno di maternità quasi impossibile.
Sceneggiato con cura, “La Quietud” di Pablo Trapero sovrappone e incrocia più direzioni, passando in rassegna l’intero albero familiare, ramificandolo nei legami coniugali e nei tradimenti.
Rancori passati e segreti a lungo taciuti esplodono tra le mura della villa familiare, in cui cominciano a risuonare orgasmi e ventilatori meccanici e dove la luce va e viene. Gli spazi assolati e i colori latini ripresentano i contrasti sempre riusciti del cinema di Pablo Trapero che, insieme a una partitura musicale giocata in contrappunto, smorza l’amarezza diffusa dell’intera vicenda. “La Quietud” regala un personaggio materno adorabile, adombrato da nevrosi e fantasmi, costola estrogena di un’opera che fila via luminosa fino a un finale gender, devirilizzato, quasi incestuoso, ma completamente azzeccato.