È sempre un peccato assistere alla diaspora del pubblico annoiato. Non c’è la sala gremita di mercoledì 17 ottobre ad attendere il cast di “Afghanistan” per la seconda parte, “Enduring freedom”. Le sceneggiature meno teatrali di “Afghanistan – Il grande gioco” tengono viva l’attenzione perché c’è da imparare, c’è da sapere. La seconda parte del documentario, invece, è per tutti dolorosa memoria grondante di sangue. L’arco di tempo che va dal 1996 fino ai giorni nostri è l’oggetto della narrazione.
I cinque quadri di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan e Naomi Wallace arrivano allo spettatore con una violenza inaspettata. Probabilmente perché la maggior parte degli episodi sono andati oltre la Grande Storia. Anche quando in scena ci sono generali, ambasciatori, la regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani miscela con sapienza necessità marziale e intimismo.
La potenza drammaturgica di “Afghanistan – Enduring freedom” è tutta giocata sui contrasti. La delicatezza degli scenari in cui sono spesso avvolti gli attori stride con una realtà spietata come le leggi della natura. Una realtà (prima umana e sociale, poi geopolitica) che si caratterizza nel segno dell’irreversibilità. Gli inglesi si rivelano estremamente corretti nel ripartire le singole responsabilità del qui ed ora, azione sufficientemente soddisfacente per quel che riguarda l’intenzione di ricostruire la storia a teatro.
Ciò che resta è lo scontro con il culturalmente diverso, che ogni volta mette in crisi ciò che consideriamo giusto. Ed è ancor più vero quando il desiderio di autodeterminazione si traduce in uno stupro della libertà, arma impropria volta a tacciare l’altro di contraddizione. Ma il nostro concetto di libertà è ben lontano dall’essere una fiala di vetro, pronta a essere riempita da acido fluoridrico. Lo diceva bene Bloch: “Solo i vitelli più stupidi di tutti scelgono da soli il proprio macellaio”.
Il climax di “Afghanistan” supera il semplice sentimento del bello. Perché non c’è storia più appassionante della realtà.
In Afghanistan non si sceglie da tanto tempo, non sanno più cosa sia la libertà. Se per le nuove generazioni è difficile da capire, come è possibile esportarla? L’idealismo illuminista davanti a un groviglio inestricabile di tradizioni, potere e malafede ha la potenza di una candela sotto uno scroscio di pioggia. Non può nulla.
Vano il desiderio di Antigone di riconsegnare le salme dei defunti ai cari, per assicurargli una degna sepoltura. Vano il sogno di Moussad di rendere l’Afghanistan uno stato moderno. E miserabilmente vane le sue attese di un aiuto dall’Ovest. Vana ogni resistenza al patteggiamento. Vane le psicosi da guerra delle migliaia di benintenzionati soldati in missione. Vano ogni autonomo tentativo di fuga, anche solo per rimozione mnestica. Perché in Afghanistan “la vita delle donne è tutta uguale: ogni giorno aspettano di essere uccise da qualcuno che è venuto per liberarle”.
E vano è stato ogni tentativo di sentirmi meno inutile. Spero che chi come me è uscito da Teatro Argentina sia cosciente di essere un privilegiato, anche solo circoscrivendo la categoria a nostra madre Europa. Abbandonare la platea con ogni barriera di distacco emotivo completamente dilapidata non è cosa da tutti i giorni. Il climax di “Afghanistan” supera il semplice sentimento del bello. Perché non c’è storia più appassionante della realtà. C’è solo da sciogliersi in applausi per il cast, la regia e la produzione che hanno reso possibile tutto questo.