L'emotività condivisa di "A.GÒ.GI.CA", terzo disco in itinere dei VIRTUAL TIME
Virtual Time in ordine sparso: Luca Gazzola, Marco Pivato, Alessandro Meneghini e Filippo Lorenzo Mocellin.
Virtual Time in ordine sparso: Luca Gazzola, Marco Pivato, Alessandro Meneghini e Filippo Lorenzo Mocellin.

L’emotività condivisa di “A.GÒ.GI.CA”, terzo disco in itinere dei VIRTUAL TIME

Reduci dall’apertura del concerto di Fantastic Negrito alla rassegna “Acieloaperto2019” svoltasi lo scorso 14 Giugno, i Virtual Time hanno colpito ancora. Lo hanno fatto con “A.gò.gi.ca”, il terzo dei cinque capitoli previsti per il 2019. Una pentalogìa, un concept che prevede la pubblicazione di “cinque EP di largo respiro” che racchiudano un percorso di ricerca e condivisione. Formazione veneta, i Virtual Time sono insieme dal 2012. Alle spalle, due full-lenght, diversi EP, intense attività live e la vittoria, nel 2016, dell’ Hard Rock Café Vinyl Contes, indetto dall’Hard Rock Café di Venezia. Insomma, i Virtual Time non stanno certo con le mani in mano. E meno male! Dopo la pubblicazione di “From the roots to a Folded sky” e “Animal Regression” – i primi due capitoli della pentalogia annuale – i bassani hanno dato una decisiva svolta sonora con quello che è il capitolo centrale del progetto.

Sì, perché l’influenza hard rock settantina da cui i Virtual Time hanno preso le mosse per decollare è qui, dentro “A.gò.gi.ca”, una sorta di “regalo” all’intuito dell’orecchio. Non è palese, non è la sola, non è inquadrata, ed è contaminata. Perché l’agogica stessa, nella terminologia musicale, è un impulso perturbabile e quindi soggettivo. È la condizione per cui istinto ed emotività diventano protagonisti della scrittura. Una sorta di happening artistico. I Virtual Time lo hanno reso possibile.  Certamente, la prima struttura da smontare è quella della “forma–canzone”. Ebbene, nel disco non ce n’è. Se non come residuo, traccia di una conoscenza. L’apripista “Nowhere Land” mi ha riportato alla mente le composizioni del John Frusciante del 2000. Piglio rock e guizzi d’elettronica, arpeggi di chitarra per un crescendo d’intensità finale. Mi domando se tra le ispirazioni del quartetto, l’ex Red Hot Chili Peppers abbia una qualche rilevanza. Immagino di sì.

l’agogica stessa, nella terminologia musicale, è un impulso perturbabile e soggettivo. È la condizione per cui istinto ed emotività diventano protagonisti della scrittura. Una sorta di happening artistico. I Virtual Time lo hanno reso possibile.

Personalmente, ho sentito il suo riverbero sparso per tutti i venti minuti del disco. E scusate se è poco! “Falling away” è sensuale nell’impiego del synth e l’andamento ritmico. Ha un’oscurità alla Bad Seeds. Scintille elettriche post–rock nell’intermezzo “Subtle Echoes” ad aprire “Moonshadows”. Pezzo sospeso tra acustico e elettronico, anni ’70 e ’00. A emergere, la matrice pinkfloydiana. Simile, ma non davvero “Close to reality”. Il secondo intermezzo d’ambient e vocalizzi. Si approda a “She” e si viaggia in alto “verso Marte”. Un richiamo a David Bowie che va smembrandosi per dissolversi in chiusura. “A night in Paradise” accompagna in due minuti di arpeggi leggeri e malinconici l’ultima “Distant Shores”. Forse, il brano più aperto di “A.gò.gi.ca.” Qui, l’emotività è libera. Tutto si scioglie dentro i confini della soggettività. Pieno il coinvolgimento. I Virtual Time sono bravi. Non ci resta che attendere le novità in corso d’opera. Nel frattempo, complimenti!