Erick Zonca aveva destato grande interesse con “La vita sognata degli angeli” (1998) e “Le petit voleur” (1999), due film che esibivano grande audacia stilistica e un carattere viscerale insolito per il cinema francese. Ma dopo il dramma messicano “Julia” (2008), con Tilda Swinton nei panni di una rapitrice di bambini, sul regista si è protratto un lungo silenzio. Con “Black Tide”, tratto da un un romanzo giallo dell’israeliano Dror Mishani, e pubblicato in Italia col titolo “Un caso di scomparsa”, rompe quel silenzio. Quello che su carta parrebbe un normale film poliziesco, al cinema diventa il ritorno di un passato lontano e un afoso thriller psicologico su una società perdutamente malata. Un cinico investigatore indaga sulla scomparsa di un adolescente ma, brancolando nel buio, non può che ricorrere a intuizioni poco ortodosse e che lo fanno scivolare rapidamente verso l’incapacità di distinguere lavoro e vita privata.
Dany Arnault, 16 anni, è scomparso. Ma quando la madre Solange (Sandrine Kiberlain) riesce a ritrovarlo, il comandante della polizia François Visconti (Vincent Cassel) le dice di tenerlo sotto stretta sorveglianza perché i bambini che crescono spesso scappano per ragioni che agli adulti sfuggono. Un consiglio certamente vero, anche se probabilmente maturato dal coinvolgimento del figlio del poliziotto in un traffico di droga. Quando il ragazzo scompare di nuovo, stavolta l’indagine diventa ufficiale, e Visconti si ritrova coinvolto più che mai. Sottovalutando le teorie dei suoi colleghi sul reclutamento jihadista nella scuola del ragazzo, i sospetti ricadono sullo scrittore Yan Bellaile (Romain Duris), insegnante privato di Dany nonché vicino di casa della famiglia Arnault. Venuto a sapere della scomparsa del ragazzo, l’uomo è molto interessato alle indagini e offre il proprio aiuto al comandante. Ballaile però, vuole seguire il caso un po’ troppo da vicino.
“Black Tide” sembra rinverdire il genere poliziesco, sudicio e immorale, che si è alternato copiosamente sugli schermi americani fino al secolo scorso.
“Black Tide” sembra rinverdire il genere poliziesco, sudicio e immorale, che si è alternato copiosamente sugli schermi americani fino al secolo scorso. Questo film vive del fascino di quelle pellicole, facendo proprie le logiche, spesso oscure, che sostengono gli impulsi più neri dell’essere umano, preferendole alle spiegazioni chiarificanti. C’è ancora un innegabile richiamo di quei personaggi malsani che sono soliti spingere la propria vita verso il basso. Ma solo alcune pellicole sono riuscite ad assorbire nella trama le ombre del genere, ad agitare sotto la pelle dello spettatore quel tipo di mistero che viene risolto e sanato solo quando è sul punto di sanguinare. Sul film aleggia persino una vaga atmosfera anni ’70 che ci porta a pensare che, a un certo punto, Vincent Cassel possa sedersi in un squallido appartamento e mettersi a suonare il sassofono come Gene Hackman in “La conversazione” (1974).
In senso narrativo “Black Tide” è sì un classico poliziesco, ma uno di quelli in cui la psicologia è più importante della trama. Tra le righe c’è il ritratto abbozzato di una società atomizzata in cui nessuno si fida di nessuno, i bambini sono estranei ai loro genitori e il vicino amichevole potrebbe essere un pericoloso psicopatico. Formalmente è soprattutto la fotografia satura di Paolo Carnera, fino a poco tempo fa fisso direttore della fotografia di Stefano Sollima, a donare ambiguità all’immagine. Eppure, la palpabile tensione che innerva la visione è anche il risultato della carica elettrica che regna tra gli attori: la tensione può essere letta sui loro volti e tutti sembrano muoversi sul filo del rasoio, vicinissimi al punto di rottura. I due attori principali sono al massimo della forma e, ciascuno a suo proprio e con i propri mezzi recitativi, danno corpo a due personaggi antagonisti.
In senso narrativo “Black Tide” è sì un classico poliziesco, ma uno di quelli in cui la psicologia è più importante della trama.
Se Vincent Cassel affronta la difficile comunicazione col figlio coinvolto nel traffico di droga, Roman Durin eccelle nel dare corpo a un personaggio adeguatamente ambiguo. Alla sua prima apparizione, il personaggio dello scrittore stride tanto che per un momento potremmo pensare che l’attore arranchi nell’interpretazione, o che il suo personaggio sia fuori tono. Ben presto si capisce cosa lo muove, lo motiva, lo anima. Scopriamo la sua scrittura, il luogo in cui insegna privatamente, ciò che fa, osserva, pensa, interpreta. È colpevole di cosa? Sarà questa la domanda innestata nella mente di Visconti, come in quella degli spettatori. Attraverso le indagini improprie di un poliziotto che beve, esplode e viola, e i deliri di un aspirante scrittore che manipola la realtà per trovare l’ispirazione, Erick Zonca come regista e – per sua sua stessa confessione – come ex-alcolista, si muove sul medesimo crinale dei suoi personaggi.
La distinzione tra i suoi avatar sullo schermo e il regista si perde in modo pericoloso e affascinante. Allo stesso modo, le nebbiose nevrosi dei due personaggi affiorano, ma solo per rivelarsi sempre più difficili da inquadrare. Erick Zonca pone nella struttura schizofrenica del film tensioni opposte che animano due personaggi antitetici. Ma nessuna di queste, sebbene indagate da ogni punto di vista, riesce ad avanzare sull’altra durante il procedere egli eventi. La prima, quella di un investigatore malato e distorto che non esita a molestare i sospetti o i testimoni per ricavare informazioni preziose, emerge per la sua spudorata rudezza. La seconda, quella di un professore dotato di una strana flemma robotica, si affianca alla prima e partecipa al film attraverso le sue deleterie fantasie e i suoi desideri di manipolazione. Sarà lui, nonostante tutto, all’origine della risoluzione dell’indagine?
Gli elementi che definiscono il clima crepuscolare di “Black Tide” donano una carica seduttiva a tutte le tenebre in cui il film si dimena.
Quindi, si potrebbe pensare “Black Tide” come lo sfogo terapeutico del suo regista? O dovremmo prenderlo, più prosaicamente, come un thriller nero in cui questi ha immesso la sua personalità travagliata? Il film non darà alcuna risposta precisa. Nemmeno la sceneggiatura, costruita e animata da un costante realismo che sovente porta a scomodi sorrisi, ci incoraggia a vedere più chiaramente. Le figure mostruose ritratte da Erick Zonca sono preda di una nevrosi incessante che seppellisce il film sotto una pesantezza malsana, dove tutto è pretesto per infliggere l’ennesima ferita a un corpo già moribondo. In tal senso, alcune angoscianti piroette di scrittura risultano non necessarie, finendo solo per saturare la tensione e il disordine che, coi soli corpi dei personaggi, regnavano già dappertutto. Alla fine, il regista tenta pure di riassettare il suo film attraverso un’ambigua lezione morale.
Come in molti film con al centro poliziotti eccepibili, non manca anche qui una buona dose di razzismo locale, omofobia esibita e sessismo scorretto. Le donne ritratte, violate, abusate e costantemente vessate, sono spinte ad accettare l’inevitabilità del loro destino; ma, per proteggersi dal male che le circonda, sono – o sono mostrate – come complici o responsabili. Un’aggiunta etica francamente rischiosa per un film che già trascorre la maggior parte del tempo a districarsi da un terreno scivoloso. Erick Zonca lancia un puro gioco di spinning, un polar interamente dominato da impulsi da soddisfare, in cui tutti spiano e bramano, sia per sospetto che per desiderio. Discese in cantina malfide, gesti inquieti negli interrogatori, sguardi voyeuristici e occhiate dalle finestre sono gli elementi che definiscono il clima crepuscolare di “Black Tide”, che dona una carica seduttiva a tutte le tenebre in cui il film si dimena.