Diamo il bevenuto a Luca Dirisio sulle pagine di Music.it. Prima di parlare del tuo ultimo album, facciamo un tuffo nel passato. Torniamo al 2004, al momento in cui hai ritirato il premio come Artista rivelazione dell’anno del Festivalbar.
Il ricordo è sempre fortissimo. È stata una cosa bellissima. Una cosa che forse non rifarei è avere di botto subito quel successo, perché te lo godi poco. Ero giovanissimo. Il contratto discografico e il Festivalbar sono arrivati all’improvviso con il mio primo singolo, “Calma e sangue freddo”. Mi avevano detto che se avesse funzionato, ne avrei potuto incidere un secondo. In caso contrario, amici come prima. E invece è successo tutto quello che è successo!
Come è stato finire così d’improvviso sotto i riflettori?
Ti senti catapultato in due mesi e mezzo, nel giro di un’estate, in qualcosa che è più grande di te. Forse oggi lo saprei gestire meglio. Da giovane ti trovi intorno tutti i discografici che cercano di dirti cosa fare e cosa non fare, ti senti sempre in errore. Quasi soffocato da questa gente che vuole che il prodotto funzioni. Ma non sai mai fino a che punto ti vuole veramente bene come può volerti bene un amico o un fratello. Ti senti spremuto come un limone. Ecco, posso dirti col senno di poi che all’epoca sono stato un po’ spremuto come un limone.
Hai ricordi negativi di quel periodo?
Non ricordo di essermi goduto troppo il momento. In quella situazione vorresti impazzire di gioia, vivertela con i tuoi amici. Vincere il Festivalbar e partire in crociera per un mese di festa. Invece dovevo rimanere lì e iniziare a diventare un vero showman, un uomo di spettacolo. È stato un po’ difficile. Io venivo dai locali di Roma, facevo serate per 20€. Funziona così quando fai la gavetta. A un certo punto mi son trovato circondato da persone che mi facevano regali. Poi sono arrivati i primi soldi. Ero frastornato.
Sei riuscito a mantenere i proverbiali piedi per terra?
Il desiderio è sempre quello di rimanere con i piedi per terra. Credo di essere fortemente piantato per terra oggi. Ma quando si hanno 25 anni è quasi impossibile non avere un’opinione distorta di se stessi. Mi auguro di non aver fatto la figura del pagliaccio che si era montato la testa. Non avrei mai voluto dare quell’impressione di me. Spesso sono le persone che hai intorno che te la fanno montare. Ti dicono che sei famoso, e non puoi più fare ciò che facevi prima. Non ti fanno più sentire normale, semplice come eri all’inizio. Ti mettono su un piedistallo.
Cosa ti dicevano?
«Adesso che sei Luca Dirisio non puoi andare più in giro da solo. Devi avere una guardia del corpo, se no le ragazze ti assalgono». O ancora: «Abbiamo preso un tavolino riservato al ristorante, dove non ci vedono». Ma io sono sempre stato Luca Dirisio, grazie a mia mamma e mio papà. E avrei preferito essere visto. O che le ragazze mi assalissero! Ma in quella situazioni inizi a vivere così, e ti ci abitui anche. Continui con quel ritmo. La vita ti cambia. Puoi dire quello che vuoi, ma la vita ti cambia.
Cosa diresti a un giovane che si sta avvicinando a quel mondo?
Do sempre un consiglio a chi vuole iniziare a fare musica. Quello di non pensare a ciò che vuole la gente o al successo. Vedo tanti ragazzetti, oggi, un po’ troppo spavaldi e preoccupati per le cose materiali. Ancora prima di uscire, già si mettono addosso le catene d’oro. Se gli chiedi cosa vogliono fare nella vita, ti rispondono che vogliono fare soldi. Mi riferisco soprattutto a chi fa rap o trap. Fanno musica per fare business. Ottengono quattrini, donne, macchine di lusso. Io quando sono partito non sono partito con quell’idea. Come ti dicevo, venivo dai localetti di Roma. Quando cercavo serate, mi chiedevano se facessi le cover di Adriano Celentano. Ma io facevo già canzoni mie. Era difficile trovare un palco per un ragazzetto di 20 anni che studiava Giurisprudenza a Tor Vergata a Roma. Era difficilissimo perché non ero credibile.
Hai avuto problemi a importi?
Non avevo nessuno che mi accompagnasse o appoggiasse. Andavo in giro con il motorino e facevo ascoltare agli organizzatori delle serate i miei brani, voce e chitarra. Ma poi mi è stata data la grande opportunità di fare un’esperienza, che oggi ricordo ancora con orgoglio. Ho suonato ne Il Locale, a Vicolo del Fico, a Roma. Adesso non c’è più. I direttori artistici erano Daniele Silvestri e Niccolò Fabi! Ci suonavano loro e tanti altri. Dopo il Primo Maggio ci passavano tutti quelli che suonavano al Concertone. Prendevano una birretta, facevano jam session. Per me arrivare lì è stata una grande conquista. Ci ho messo tre anni per riuscire a farci la prima serata!
Com’è andata?
Abitavo di fronte a Niccolò Fabi, nel Quartiere Africano. Con la faccia di bronzo da ventenne, un giorno l’ho seguito. «Niccolò, io ti vedo tutti i giorni. Non è che ti andrebbe di sentire questo piccolo demo che ho fatto? È realizzato con voce e chitarra, ho pagato uno studietto per registrarlo. So che sei il direttore artistico de Il Locale», gli ho detto. Dopo averlo sentito mi ha concesso di fare una serata. Poi ho iniziato a suonarci una volta al mese. Alla fine, dopo aver messo su un gruppo, ho iniziato a salire su quel palco ogni settimana. È stata una grande scuola di vita. Ogni sera suonavano artisti diversi, e non si accettavano cover band. Ascoltavi musica a 360°. E potevi fare due chiacchiere con personaggi che erano già fortissimi, della grandissima scuola romana.
Esistono ancora posti simili?
Sì, ci sono. La scuola romana si è persa, forse si sta riprendendo un pochino adesso. Ma con la nuova ondata di rap e musica fatta con il computer, non è più la stessa cosa. A Milano c’è una brillante scena hip hop. Ci sono locali dove ogni sera fanno fanno le battle. Ma i ragazzetti sono montati. Arrivano lì con dieci amici, due smandrappate, le patacche d’oro con finti brillanti. Imitano qualcuno. Quando andavo a suonare dovevo dimostrare di essere diverso, di fare qualcosa di originale. Salivo sul palco con il mio stile, il mio modo di scrivere e cantare. Tornando alla tua domanda iniziale, non è stato difficile impormi. Non era quella l’intenzione. Volevo andare avanti facendo ciò che mi piaceva. Rimanendo fedele a me. Un sacco di ragazzi mi mandano messaggi mentre cantano le mie canzoni. E questo mi fa un sacco piacere, mi riempie il cuore.
Ti svelo un segreto. Le canzoni di Luca Dirisio sono nelle playlist da viaggio di tutti i millenial che conosco! Siamo tutti cresciuti con le tue canzoni.
Spero siate cresciuti bene, allora! Io non mi prendo nessuna responsabilità! Scherzi a parte, sono queste le cose che mi emozionano, ancora oggi. Mi viene la pelle d’oca al solo pensiero.
Invece c’è qualche artista di oggi che pensi valga la pena seguire?
Io sono un po’ critico sotto questo punto di vista. Vedo che ci sono tanti ragazzi che cercano di tornare al pop e al cantautorato italiano. Ce ne sono due o tre che vogliono fare i Vasco Rossi della situazione. Li trovo ridicoli. D’altro canto ci sono alcuni nuovi artisti veramente forti, che hanno quello stile che piace a me. C’è un ragazzo in particolar modo che vorrei incontrare per riempirlo di complimenti. Parlo di Motta. È davvero bravo. Si sente che ha qualcosa da dire, un mondo interiore che riesce a trasmettere bene anche all’esterno. Chiaramente è molto diverso dalle canzoncine che ci abituano a sentire in estate. Quelle che definisco “canzoni da giostra”, utili nei parchi acquatici per fare aquagym.
Però pure quelle hanno una loro utilità, no?
Servono a persone che non capiscono granché di musica. E non sto dicendo che tutti debbano avere conoscenze musicali. È bene che ci siano anche quelle canzoni là. Però servirebbe avere l’orecchio un po’ più fino. Questa distribuzione gratuita di dischi di platino è terribile. Spero che gli artisti come Motta abbiano invece un gran futuro e un gran seguito. Vorrebbe dire che ci sono ascoltatori che ancora hanno un cervello pensante e apprezzano le cose vere. Come le canzoni ben scritte di una persona che si vede che ha studiato. Si sente che lui ha affinato con il tempo il suo modo di scrivere, che è unico. Ho ascoltato con entusiasmo i suoi dischi. Non ho mai avuto l’opportunità di incontrarlo, ma se potessi farlo gli stringerei la mano e gli farei i complimenti.
Ma torniamo a te. Nel 2006 cantavi “Sparirò”. Alla fine l’hai fatto davvero.
Come avrete notato mi son fatto i fatti miei per un bel po’ di tempo. Non perché non avessi voglia di fare qualcosa. Ma è cambiato molto il mercato discografica, e anche il modo di proporre la musica e ascoltarla. In questi 8 anni ho tirato fuori un po’ di canzoni. Alcune con il mio carissimo amico e compaesano Ketra (membro dei Boomdabash e produttore da record insieme a Takagi, con cui ha firmato alcuni dei singoli più venduti degli ultimi anni). Pensa che quando abbiamo proposto il nostro progetto alle major, ancora i discografici non conoscevano né lui né i Boomdabash. Anche se con lui ci siamo accorti strada facendo che facevamo cose troppo diverse.
Sono passati 8 anni dal tuo ultimo album, “Compis”.
Nella musica è bello sperimentare e cercare di fare delle cose diverse. Ma non so fino a che punto sia servito a me e alle persone che mi ascoltano e che mi seguono. I progettini che ho fatto in questo lasso di tempo non hanno avuto il riscontro che mi aspettavo. Forse gli ascoltatori non si aspettavano quel Luca Dirisio. E quindi mi son preso il mio tempo. Per riflettere a volte bisogna cambiare aria. In questi 8 anni ho fatto tantissime esperienze.
Ti hanno aiutato a trovare l’ispirazione?
Sono andato via da Milano, ho comprato una casa nel mio paese, Vasto. Mi sono sposato. Ho sperimentato cosa significa transiberiana, prendendo un treno da San Pietroburgo e arrivando in Cina. Mi è piaciuto parlare con un sacco di persone, dormire a casa loro superando i confini linguistici. Ho dormito in un sacco a pelo sotto le stelle. L’ispirazione non esiste, è un concetto che non mi appartiene. Esiste la fermentazione, di sentimenti ed emozioni. Li devi sentire dentro. A un certo punto vengono fuori da soli. Spesso inizi a scrivere una canzone ed esce fuori tutt’altro. Il nuovo disco è così: un insieme di emozioni fortissime. In questo progetto ho fatto esattamente quello che volevo.
Con un ritorno di fiamma, il tuo storico produttore Giuliano Boursier. I rapporti tra voi sono sempre stati buoni?
Quando ho abbandonato il suo progetto, avevo voglia di fare altro. Volevo ascoltare nuova musica e suonare con persone diverse. Com’è naturale che sia, dopo tanto tempo. Non sono andato via sbattendo la porta. Ci siamo sempre rispettati. Quando ci siamo rivisti non c’è stato bisogno di chiedere il permesso o chiedere scusa. È come quando non vedi un fratello per un po’ di tempo. Il rapporto rimane lo stesso.
Tra voi ci sono equilibri diversi rispetto al passato?
Siamo diventati entrambi più pazienti. A vent’anni vai dritto per la tua strada. Scrivi le tue canzoni e non sei incline ad ascoltare i consigli. Vuoi fare come dici tu. E dall’altra parte il produttore ti fa presente che è lui che mette i soldi, e devi fare come dice lui. Oggi lavoriamo diversamente. Quando ci sono delle visioni differenti su come fare un brano, usciamo dallo studio e andiamo a bere una birra. Dopo quattro chiacchiere, rientriamo e cerchiamo di trovare il giusto mezzo. Maturare significa anche questo.
“La mia gente”, il primo singolo che anticipa il tuo album in uscita il 25 ottobre 2019, è pervaso da sentimenti di rinascita e resilienza. Ma anche di rabbia. Avevi in mente qualcuno in particolare a cui dedicarla?
La mia rabbia è dovuta al fatto che sono fortemente abruzzese. Sono attaccato alla mia terra, e alla sua bellezza, anche se a volte decide di ballare. Ci fa saltare dal letto e ci fa crepare i muri. È una zona sismica, ci siamo abituati. Ma quando nel 2009 c’è stato il terremoto, mi son sentito preso in giro da più fronti. Da una parte dai politici. Hanno spettacolarizzato la tragedia, speculando su L’Aquila e tutto quello che c’era attorno. Quando ancora c’erano delle vittime sotto le macerie, e alcuni erano miei amici. Tanti politici sono venuti qua per il G8, ma se vai oggi in quelle zone, ci sono ancora città intere da ricostruire. A volte i pagliacci è bene che vadano al circo, invece di fare i politici. È stato tutto una grandissima presa per i fondelli. Ci sono persone anziane che ancora vivono in case di cartone.
Venerdì il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha raggiunto le zone del sisma. Che ne pensi?
Sarebbe ora che un presidente del Consiglio inizi a fare qualcosa, invece di andare tra i terremotati a farsi le fotografie per cercare consensi. È necessario destinare fondi per ricostruire le case di chi ha bisogno. Sono passati diversi premier dalle nostre parti, e tanti politici sono venuti da noi per fare campagna elettorale. Tutte promesse al vento.
Ma dicevi che eri arrabbiato anche su un altro fronte.
Nel 2009 io avevo appena concluso la mia collaborazione con la Sony. Quando si conclude un rapporto, come dicevamo, non c’è bisogno di odiarsi o mettere da parte l’umanità. Con i vertici della casa discografica avevamo mangiato insieme. Io avevo fatto fare dei soldi a loro, loro li avevano fatti fare a me. Dopo il sisma è stato fatto anche il singolo per l’Abruzzo. All’epoca ero l’unico abruzzese tra i big. Mentre usciva il singolo, nessuno della Sony si è degnato di chiamarmi per chiedermi se fossi sotto o sopra le macerie.
E i tuoi colleghi, invece?
Ogni volta che qualcuno viene a suonare dalle mie parti, soprattutto a Vasto, lo vado a trovare e lo porto fuori a mangiare una cena tipica con tutto il suo entourage. Chiaramente sono miei ospiti. Mi metto sempre a disposizione per qualsiasi esigenza. Tra gli Artisti uniti per l’Abruzzo c’erano tanti amici. Gente a cui ho offerto cene e a cui ho fatto passare belle serate. Nessuno di loro ha alzato il telefono per chiedermi se fosse tutto a posto, e se la mia famiglia stesse bene. Dopotutto non mi hanno neanche coinvolto in questo progetto. Sai, è facile fare la bella faccia. Se vai a stringere, dei terremotati non frega niente a nessuno di loro. Fatto il tormentone, L’Aquila è ancora lì com’è. Tutte le promesse si son rivelate aria fritta.
E così hai dedicato una canzone a chi ancora chiede di essere ascoltato, a distanza di dieci anni.
Dopo tanto tempo che mi sono preso, ho pensato che fosse giusto, da solo e senza pubblicità, scrivere una canzone per “La mia gente“. Gente umile. Che senza lamentarsi di nulla si è alzata su le maniche e senza avere l’aiuto di nessuno, ha iniziato la ricostruzione per avere un tetto sopra la testa. Io sarò sempre uno di loro, sarò sempre dalla loro parte. Sarò sempre abruzzese.
Chapeau. Ora mi hai fatto venire tu la pelle d’oca. Come vedi il futuro? Come sarà Luca Dirisio tra deci anni?
Più vecchio, sicuramente. E un po’ acciaccato. Anche perché non sono un tipo tranquillo, mi piace fare tutto ciò che è pericoloso. L’altra sera mi son quasi lussato una spalla con lo skate! Anche a 41 anni continuo a cercare guai. Lo farò finché le gambe reggono. Spero di poter continuare a fare le cose che mi piacciono. Nella vita ho avuto il conto in banca pieno, ma non ero completamente felice. Oggi ne ho uno semplicemente stabile, e già sono fortunato per questo, visti i tempi. Ma sono libero di godermi la vita. E anche la solitudine. Ho imparato negli anni che ci sono diversi tipi di solitudine.
Ovvero?
Ci sono solitudini brutte. Quelle degli anziani dimenticati negli ospizi, delle persone abbandonate dalla famiglia. Persone che vogliono cambiare terra, ma non gli viene permesso di farlo. E poi c’è una solitudine positiva. Ogni tanto sento il bisogno di fuggire. Magari per andare a pesca e sentire il silenzio. Con la maturità inizi ad apprezzare il silenzio. Il silenzio che poi è un fortissimo rumore, perché il mondo fa rumore. È una musica eccezionale. Prendersi il proprio tempo è importante. Bisogna andare in montagna a fare snowboard, andare al mare, viaggiare. E soprattutto passare tempo con le persone che amiamo. A volte sottovalutiamo quanto sia importante. Poi quando non ci sono più, ci rendiamo conto del vuoto che rimane. Ora mi sto godendo la vita.
Cambiare aria ti ha fatto bene.
Ho fatto un passo indietro, a livello di vita. Ho abbandonato la frenesia delle serate milanesi. Tutta l’energia che utilizzavo per cose futili, ora la uso per cose che mi fanno stare bene. Penso che il segreto per vivere bene sia questo. Dovremmo fare più spesso ciò che ci piace fare. I soldi davvero non fanno la felicità. Se ti piace andare a pescare, vai a pescare. Ti piace il kitesurf? Vai al mare, anche d’inverno. Dobbiamo seguire le nostre inclinazioni. Non facciamo male a nessuno.
La ricetta di Luca Dirisio quindi è vivere al 100% ogni esperienza e il ritorno alle origini?
Tornare a casa è una sensazione bellissima. Un uomo che non riesce più a provare nostalgia, è un uomo apolide. È un individuo che si è perso nel mondo. Se non hai nostalgia, non hai neanche la voglia o il piacere di tornare a casa. La nostalgia ti segna la strada di casa come le briciole di Pollicino. È una cosa bellissima, serve a noi cantautori per scrivere e all’uomo per non dimenticare la via di casa.