LUIGI LOPEZ: "L’autore mette tutto se stesso in un'opera che sia piccola o grande"
Il Maestro Luigi Lopez durante un esibizione live.
Il Maestro Luigi Lopez durante un esibizione live.

LUIGI LOPEZ: “L’autore mette tutto se stesso in un’opera che sia piccola o grande”

Ho avuto il piacere di intervistare Luigi Lopez, uno dei più grandi autori italiani oltre che una splendida persona. Ci siamo dilungati in chiacchiere, sconfinando oltre quella che avrebbe dovuto essere un’intervista canonica e toccando argomenti più e meno delicati di altri. Dall’importanza della legge sulla tutela dei diritti d’autore, alle sue esperienze con personaggi storici del mondo della musica. Una di queste cose mi ha particolarmente colpito. Lo spirito ancora giovane e sognante di un artista nato nel ’47, che ha vissuto davvero la storia della musica in prima persona. Mi ha spiegato come secondo lui, per rimanere giovani bisogna essere curiosi e avere passione per la musica, perché la musica, è, e sarà sempre, la tua compagna più fedele.

Prima di rispondere alle mie prime domande “ufficiali” ha fortemente voluto che io riportassi delle sue parole all’interno di questa intervista:

Io ti devo ringraziare. Tu sai che io scrivo musica. Talvolta ho scritto testi di canzoni anche molto fortunate, ma sono “solo” un autore, un creativo. E per un difetto della nostra cultura gli autori non se li fila nessuno. Non hanno una visibilità, perché le loro opere servono a chi ne fruisce, e di loro non si sa proprio niente. A me piace a volte scherzare con il pubblico, per dare però una grande lezione. Spesso chiedo “quale è la più famosa canzone italiana?”. Loro ovviamente rispondono “Volare”, e io dico “chi l’ha scritta?” e loro “Domenico Modugno”. E invece no, “Volare” è stata scritta da Franco Migliacci, ed è il segreto di quel successo. Questo nome non lo conosce quasi nessuno.

Sembra assurdo ma la cultura musicale dell’ascoltatore medio italiano non è particolarmente forbita sotto questo unto di vista.

Pensa che per me questo è stato il primo anno che il mio nome è stato detto per intero al Festival di Sanremo, quando è stata presentata la cover de “La Nevicata del ‘56”. E per me è una grande vittoria, perché ogni giorno combatto per far emergere la figura degli autori e dei creativi. Questo perché spesso a loro non vengono riconosciuti i meriti e i riconoscimenti che dovrebbero spettargli. L’autore mette tutto se stesso in una piccola o grande opera, senza avere la certezza che questa abbia successo, e non è giusto che poi non gli venga riconosciuto!

Dopo la premessa doverosa all’intervista, arriviamo alle domande, partendo da un punto cardine della storia di Luigi Lopez, il suo primo approccio con la musica.

Luigi, è un piacere, mi piacerebbe iniziare questa intervista con un tuo ricordo. Un ricordo legato alla musica, il tuo primo ricordo legato alla musica. Riusciresti a raccontarmi come nasce questo amore?

Mia sorella, che ora non c’è più, era una persona dolcissima. Molto giovane si fidanzò con un grande Baritono. Io avevo circa sette anni e lui veniva a trovare la sua fidanzata, che ovviamente viveva ancora a casa con me. A volte faceva dei vocalizzi da tenore, da canto lirico, che scuotevano tutto il palazzo per la potenza che avevano. Mi incuriosì molto, mi portarono al teatro dell’opera. Io sono un amante del melodramma, di Giacomo Puccini. Quando sento Tosca mi commuovo.

Da lì come ti avvicinasti alla musica suonata?

Ci fu un miracolo, un signore che io ringrazierò per sempre, tale Febo Conti, che nella TV degli anni ’50 spiegò come costruire una chitarra con degli oggetti di uso comune: un barattolo di pomodori, un bastone, del fil di ferro. Io la costruii e suonai questa sorta di strumento tribale con una sola corda per almeno uno o due anni. Mia sorella intenerita dalla mia buona volontà poi mi regalò una vera chitarra con 6 corde.

Quindi Luigi Lopez ha cominciato a suonare con una chitarra fai da te!

Esatto, infatti quando mi arrivò la prima chitarra, all’epoca al prezzo di 6.000 lire, io mi chiesi: «E ora che ci faccio con ben sei corde?». Non avevo idea di cosa fare (ride). Poi la prima canzone che iniziai a suonare con questa chitarra fu “Quando viene la sera” di Joe Sentieri. Poi ovviamente iniziò lo studio della chitarra da autodidatta, infatti io invento in tutti i sensi gli accordi. In seguito conobbi Gianni Boncompagni che credette in me.

Come è successo?

Io non suonavo altro che The Beatles e lui in un locale si accorse di me e venne a complimentarsi, ero ancora un ragazzino. Mi disse “tu suoni come un americano””. Da lì, per tre anni, mi svezzò musicalmente a casa sua. Poi mi presentò Edoardo Vianello che affascinato dal mio stile mi fece il mio primo contratto, che mi diede modo di iniziare a lavorare nel mondo della musica professionale. Da quel momento fu tutto in discesa. Sono stato molto fortunato.

Volevo chiederti a tal proposito. Tu eri un appassionato di rock e blues. Come è stato vivere negli anni ’60 questo movimento musicale? Eri il classico ribelle che vediamo in TV?

In realtà no, sono sempre stato un “bravo ragazzo”. Tutte le sere andavo al Piper e mi capitava di incontrare questi mostri della musica come Jimi Hendrix, Pink Floyd. Suonai sul palco dove subito dopo salì David Gilmour. Chiamavano proprio la nostra band per il nostro stile molto “americano”. Sono cresciuto con questa musica dal vivo, in tempi improbabili. Se volevi sentire questi mostri dovevi partire a piedi e andare nei locali. I media non diffondevano queste notizie. Un altro mondo!

Credo che per chi ama la musica questo sia il massimo. La mia generazione non potrà mai vedere un nuovo album dei The Beatles ad esempio.

Erano proprio altri tempi. Noi quando usciva un album ci riunivamo a casa di un amico fortunato che aveva il giradischi e passavamo i pomeriggi ad ascoltare i nuovi album in silenzio religioso. Era l’unico modo per ascoltare una nuova uscita discografica. Mi sembra di aver vissuto quasi un’epoca di favola.

È anche un discorso di aggregazione no? Oggi il singolo nasce e muore in tre minuti.

Esattamente, ricordo che eravamo tutti incantati. Solo pochi di noi capirono la meraviglia della musica dei The Beatles. Fui una delle 1200 persone fortunate ad andare a vederli live al Teatro Adriano, per la prima volta a Roma. Sai chi aprì quel concerto? Peppino Di Capri! Questo perché nessuno ancora li aveva capiti, nel loro immenso valore. Ricordo che quando entrarono loro quattro la prima cosa che fecero a tre voci, con un solo microfono fu “I’m a loser”. Io rimasi estasiato, completamente. Siamo tutti impazziti in quel momento. Una conferma che la buona musica esisteva, era lì, andava solo abbracciata.

Sembra assurdo sentirlo raccontare. Hai altri aneddoti simili?

Certo! Ricordo che Albertino Marozzi, un caro amico, una sera venne di corsa da me dicendomi “Corri corri, nella macchina ho una sorpresa!”. Lui aveva una 500 bianca. Salii le scale del Piper ed uscii per andare a vedere. Sai chi c’era sui sedili posteriori della 500 fiat? George Harrison e Ringo Starr! Io non so come lui abbia fatto ad andarli a prendere in albergo, ma aveva proprio questo tipo di carattere. Riuscì addirittura a suonare la batteria insieme a Jimi Hendrix al Piper!

Non saprei come risponderti, rimango senza parole solo al pensiero!

Se vuoi, per concludere ti dico quest’ultima cosa: io credo di essere stato l’unico musicista italiano che ha avuto la possibilità di parlare con Paul McCartney per un quarto d’ora da soli. Eravamo al Teatro Ariston nel 1988. Avevo appena vinto l’anno prima con Michele Zarrillo con “La Notte Dei Pensieri”. Quindi ero lì e avevo il pass per le prove. Ebbi il privilegio di essere in prima fila alle prove dei Wings di Paul McCartney a guardare le prove. Lui era li e durante le pause stava seduto sull’amplificatore ad accennare tutti i pezzi che ormai sono storia della musica. Non ce la feci più e mi avvicinai “Ciao Paul, sai io anche sono uno scrittore di canzoni. Volevo ringraziarti per tutto quello che hai saputo darci con la tua musica, per ciò che ci darai, e specialmente per ciò che ci hai fatto immaginare”.

E lui?

Lui parla un inglese molto stretto, rimase molto contento e alla fine finì con una chiacchierata di un quarto d’ora tra me e lui, a parlare di musica. Un musicista eccezionale, un’emozione unica essere lì accanto a lui, da ragazzo a ragazzo a parlare di musica. Posso dire di essere un privilegiato!

Credo non valga tutto l’oro del mondo questa esperienza. Poi da lì tutta la tua carriera come autore. Ma c’è una cosa che vorrei chiederti, ovvero tutta la tua collaborazione autoriale nel mondo della musica dei cartoni animati. Ragazzi della mia età sono cresciuti con queste sigle!

Ma certo, da Mimì a Cibernella fino a – prende la chitarra e improvvisa i Superboys – la ricordi? I Super Boys. Che dire, se tu apri la classifica di iTunes, “Pinocchio perché no” è costantemente tra i primi dieci brani nella classifica dei 100 più ascoltati. Un disco uscito nel 1980 e una canzone che non tramonta mai. Ancora mi invitano a cantarla nelle scuole. Una canzone che mi ha regalato una terza gioventù, che ho scritto e cantato. Mi ha dato la possibilità di vedere mamme con le lacrime agli occhi che mi hanno ringraziato per averla scritta.

Credo che i Cartoni siano tra i cartoni che rimangono di più nella mente, ma tu sei un appassionato di cartoni?

Non tanto, specialmente verso i cartoni rozzi di oggi, mentre per i vecchi cartoni sì, mi piacevano ma non sono un appassionato., Ti faccio una confessione. Io ho molto sottovalutato il valore di “Pinocchio”. Una canzoncina che mi ha dato enormi soddisfazioni. Ma a quei tempi quando i giapponesi per la prima volta al mondo si inventarono questa cosa di andare a pescare i personaggi della nostra letteratura, della letteratura dell’infanzia, per creare queste serie di cartoni, fu qualcosa che ci incuriosì. L’RCA Italiana chiamò noi autori, per farci vedere i numeri zero di questi cartoni, invitandoci a sceglierne uno per poi scriverne la sigla. Io poi ne feci tantissime, tra cui proprio quella dei SuperBoys che fu canzone ufficiale dei mondiali di calcio dell’80. Un bellissimo momento.

Una storia fantastica. Venendo invece all’attualità: il Festival di Sanremo è finito da poco e tu ne sei stato protagonista assoluto da sempre. Che ne pensi di questa edizione?

Guarda, nei vecchi Sanremo vinceva il merito, bypassando tutte le polemiche di giurie che sbagliano etc. Ma la manifestazione era basata sulla musica. Canzoni ricche di idee, di musica, che hanno fatto la storia. Ricordi Domino? Festival del ’97 che rivede Mike Bongiorno. Lei vinse il premio della giuria di qualità che la premiò come migliore voce del festival. Era una mia canzone e io la reputo ancora oggi tra le più belle voci mai comparse in Italia. Accanto a lei solo Mia Martini, Ornella Vanoni e Mina. Poi subito dopo Sanremo ebbe un grave incidente che fece svanire il sogno, dopo 4 anni di paralisi. Dopo di lei poi nacque artisticamente Alex Britti.

E oggi?

Da 3 o 4 anni a questa parte sono deluso, specialmente per gli scarsi contenuti di buona musica. Inoltre ora c’è l’imperversare del rap e della trap, che secondo me sono il contrario della canzone. Versi recitati su ritmi più o meno complessi. Non li amo molto seppur spesso sono ricchi di contenuti molto interessanti. Ma lo dico da persona che ha vissuto diversi festival e che oggi non riesce ad apprezzare questa musica. Anche quest’anno ad esempio Marco Sentieri con “Billy Blu” ha portato un testo interessantissimo, toccante. Ma la musica dov’è?

Però credo sia un nuovo mezzo di espressione, più moderno e adatto al pubblico più giovane che lo assimila meglio.

Assolutamente, potrebbe essere una deriva che ormai va lontana da quelli che sono i miei desideri e la mia cultura musicale. Ma è un dato incontrovertibile. I giovani si sono innamorati di questa musica. Una musica che esprime tanto., Se sei arrabbiato col mondo lo dici. Metterli in musica sarebbe poi quasi impossibile. Questo si avvicina moltissimo al livello emotivo dei nuovi giovani. Credo che però venga a mancare l’elemento fondamentale poi che è la musica. Per concludere, io avrei fatto vincere Francesco Gabbani, sia per la melodia che per la sua voce, e per quelle due frasi palindrome al centro del testo che sono davvero una bella trovata.

Mi dai un gancio per farti una domanda. In finale sono arrivati i Pinguini Tattici Nucleari, con “Ringo Starr”. Dei musicisti fantastici che arrivano al terzo posto, a metà tra la musica moderna e quella classica.

Approvo, se posso tessere l’elogio di questi ragazzi, ho sentito musica in loro, un bel lavoro, seppur la mia classifica finale vede Gabbani al primo posto, Tosca al secondo e terzi sempre i Pinguini. Considera che io l’anno scorso predissi la vittoria di Mahmood, se sento una cosa bella lo dico, e fui convinto anche che avrebbe fatto una bella figura all’Eurovision. Cerco sempre di essere obbiettivo al di la dei miei gusti. I 4 anni in cui ho lavorato in California mi hanno insegnato molto.

Puoi dirmi qualcosa di più a tal proposito?

Lì lavorai con delle persone assurde! I Toto, i Chicago. Vinsi il festival di Tokyo con una canzone scritta proprio lì rappresentando con un mio brano gli Stati Uniti, con tanto di bandiera e inno degli stati uniti e la presenza di Yamaha San che era all’epoca patron e organizzatore del festival. Quindi per tornare alla domanda precedente, per questo sono molto esigente. Ho sentito cose all’estero 20 anni fa che forse qui non arriveranno mai. Cose assurde. Conobbi Eminem, lo sentii cantare dal vivo, una cosa impressionante. Fu il primo a capire che il rap da bianco poteva essere una svolta musicale. Qui in Italia mandano solo le cose più popolari, ma qui grandi artisti americani non sono mai comparsi e forse mai compariranno.

Luigi, non so come ringraziarti per il tempo e le parole che ci hai prestato. È stato davvero un piacere.

https://youtu.be/jZohC-OjgZg