MARCO BARUSSO: "Per dimostrare il tuo valore, devi pagare un prezzo"
Marco Barusso ritratto da Daniele Torti.
Marco Barusso ritratto da Daniele Torti.

MARCO BARUSSO: “Per dimostrare il tuo valore, devi pagare un prezzo”

Diamo il benvenuto sulle pagine di Music.it a Marco Barusso! Di solito cominciamo le nostre interviste domandando all’artista di raccontarci un aneddoto che lo leghi alla musica o che sia talmente stravagante da non essere ancora stato raccontato pubblicamente. A te voglio invece domandare quand’è che hai capito che volevi fare un disco.

Che volevo fare un disco l’ho capito quand’ero bambino. Ho iniziato ad ascoltare la musica grazie a mio padre e quello che si ascoltava in casa. Ricordo che una volta stavo guardando la TV e vidi gli Status Quo – o i Kiss – e da lì ho deciso di imparare a suonare la chitarra. Poi ho cominciato a sognare di essere sul palco a suonare e fare i dischi. Ricordo che il primo vinile che ho comprato fu “High Voltage” degli AC/CD e già fantasticavo di fare musica mia. Ci ho messo trent’anni a fare un disco mio, però l’ho fatto. In realtà, dischi miei ne avevo già fatti. Con gli Heavy Metal Kids e i Cayne, le due band precedenti con cui ho suonato. Però, appunto, non erano proprio miei.

La tua, infatti, è una carriera longeva e versatile. Oltre che musicista, sei un produttore e un ingegnere del suono che ha iniziato a lavorare con la musica negli anni ’90.

Sì. Il primo disco su cui sono finito credo fosse del ’93. Un disco jazz fusion che si chiama “Wally”, di Claudio Allifranchini, un sassofonista molto conosciuto. Ho iniziato suonando la chitarra e poi pian piano ho spostato il mio interesse verso la ricerca sonora, quindi quella tecnica come tecnico del suono, per poi successivamente dedicarmi alla produzione.

Come si è sviluppato questo interesse?

Da ragazzino volevo capire come si facevano le cose e quindi anche come si faceva la musica. Per capirlo devi saper suonare, devi anche capire perché un certo suono va a finire su un disco piuttosto che su un altro. Quindi ho studiato i vari strumenti che potevo suonare e capire come potevo suonarli: chitarra, basso e un po’ di tastiere e batterie, anche se non a livelli eccelsi. Il mio interesse era capire come andassero sfruttati questi strumenti, quali sonorità potessero produrre e come mischiarle per arrivare a qualcosa di buono.

C’è stato un disco particolare che ha scatenato questa curiosità?

No, non uno in particolare. Ero abbastanza onnivoro a livello musicale. Magari acquistavo dischi come quelli degli AC/DC, Deep Purple, Led Zeppelin o The Doors. Anche The Who o JeanMichel Jarre. Ascoltavo robe molto miste. Anche The Clash o la musica blues. Molta gente mi accosta al metal come genere, ma in verità non è che abbia mai ascoltato tanto metal. Lo faccio più adesso che da ragazzino.

Il tuo album “A Second Chance to Rise” ha in effetti delle sonorità e rimandi alla musica metal.

Sì, più per la sonorità che altro. Mi piace il suono che fa la chitarra e i generi in cui ci sono giri più molesti, ma fatti bene. Suoni molesti esistono anche in altri generi, ma a volte sono solo brutti. A me piace lavorare sui dischi che hanno suoni che sanno dove vogliono andare, non di gente che s’è messa a fare un po’ di versi e poi ne ha fatto un disco. Mi piacciono i dischi che si fanno quando c’è una mente dietro.

Dunque, l’improvvisazione preferisci alimentarla nei live?

Diciamo che in 40 anni ho fatto molta improvvisazione. Tutta quella che mi serviva per sperimentare. Ho già dato, non mi interessa mettermi lì e imparare a suonare una cosa sui dischi. Se una cosa va a finire su un mio disco è perché quella cosa la so già. Per me la sperimentazione la fai a casa, da ragazzino. Attacchi un po’ di pedali e vedi che suoni escono fuori. Non sempre i risultati sono degni di finire su un disco. C’è chi lo fa in maniera creativa e fa cose molto belle. Ma quando succede è perché ha imparato a usarli. Io non sperimento. Non sto facendo un genere psichedelico o dove ci deve essere chissà quale sonorità onirica o atmosferica. Ma se pure fosse, saprei come farle. Non sperimenterei per realizzarlo, capisci?

Certamente. Ti ho fatto questa domanda perché tu, avendo già suonato in due gruppi e avendo già creato musica tua, e avendo poi fatto da chitarrista turnista in diversi progetti e realtà musicali, hai esplorato molto la dimensione live. E per quanto preparato un concerto possa essere, esiste sempre quell’alone riservato alla sorpresa, all’improvvisazione. Almeno, credo.

Certo. Non sai mai cosa può succedere dal vivo. Io ad esempio ho appena finito il tour con Roby Facchinetti e Riccardo Fogli. Sono stato loro chitarrista per il tour estivo ed invernale. Lì di improvvisato non c’era una virgola. Io ho fatto tutto il concerto leggendo. Dipende dal genere, poi. Se suoni blues, hai un canovaccio di base, dove ci sono delle linee da seguire e dei paletti entro cui muoverti e improvvisare. Ma ci sono generi dove, se ti metti a improvvisare, fai solo danni. Soprattutto se ci sono organici ampi con più persone o se ci sono degli arrangiamenti complessi. Improvvisi quando hai perso il filo e non sai dove stai andando, ma lo fai per tornare al centro e uscirne vivo. Però, l’improvvisazione che si può avere dal vivo viene relegata in piccole parti designate a quello.

Volendo seguitare questo discorso e riallacciarci all’aneddoto da raccontare ti chiedo: ti è mai capitato di vivere un momento imbarazzante a causa di un’improvvisazione sbagliata?

Guarda, io sono anche salito diverse volte su un palco senza sapere assolutamente con chi stessi andando a suonare. Sai, nella classica jam dove si improvvisano pezzi per vedere cosa esce fuori? Questa è una cosa che trovo anche divertente. All’interno dei linguaggi che uso so improvvisare. Il problema è quando ti trovi in una situazione complessa e ti trovi il musicista che improvvisa e lì è un casino. Spesso vuol dire che non ha studiato e non sa la sua parte. A me è capitato di trovarmi con un batterista che sostituiva Guido Carli. Ho dovuto chiamare una persona che mi era stata presentata come un gran professionista e invece, con tanto di parti scritte date col dovuto anticipo, è arrivato sul palco a suonare tutt’altro. Gli avrei tagliato la gola.

Come ve la siete cavata?

Ce la siamo cavata che quella è stata la prima e l’ultima volta che ha suonato con me. Semplicemente. Se ci sono parti e io ti pago per suonarle – perché comunque i musicisti vengono pagati per suonare – mi pare il minimo che tu suoni quelle parti! Se ti reputi un professionista e come tali ti proponi, io mi aspetto che al 90% tu suoni quelle. Puoi cambiare un passaggio, ma non un disegno di cassa! E in questi casi che sei sul palco ma vorresti scendere. Per me è sbagliato e anche offensivo salire su un palco senza studiare. Che poi, non è che faccio musica chissà quanto complicata. La preparazione consiste nel suonare tantissime volte dei pezzi affinché si possano riprodurre tali e quali a come sono stati creati. Se il sound di una band prevede l’improvvisazione, per esempio, quella deve essere fatta sapendo cosa puoi stravolgere.

Chiudiamo questo infelice capitolo e apriamo quello sul tuo disco, “A Second Chance to Rise”. Com’è nato?

Io ho sempre scritto brani. Magari per band che producevo o per i Cayne o gli Heavy Metal Kids. Ho tutt’ora dei brani nel cassetto che aspettano di essere presi. Alcuni pezzi li avevo scritti prima ancora di entrare nei Cayne, come “My Escape” e “Tears roll down”. Mentre altri li avevo scritti proprio per fare un nuovo disco dei Cayne. Tra l’altro, uno di questi brani è stato inciso anche da loro. “On the Edge of Madness”, con Enrico Ruggeri, era nato per i Cayne. Infatti lo avevo scritto insieme a Giordano Adornato, il cantante. All’inizio lui avrebbe cantato il brano nel mio disco e poi avrebbero inciso una loro versione. Poi però abbiamo pensato che sarebbe stato strano avere in giro due brani cantati dalla stessa voce. Così, loro hanno fatto la loro versione e io ho fatto cantare Enrico Ruggeri.

Il brano è poi andato a finire sul disco dei Cayne, dunque?

Sì. Sul loro ultimo album. Il pezzo mi pare si chiami “A New Day in the Sun”. Ma è esattamente “On the Edge of Madness”. Se vai ad ascoltarlo, sentirai le differenze tra le due versioni.

Grazie per questo invito. Insisto, però, chiedendoti ancora come poi tu sia arrivato a fare un disco con questi brani.

Io sono uscito dai Cayne nel 2014, insieme a Guido Carli. Alla fine eravamo gli unici due professionisti. I vari cambi di formazione avevano portato a punti di vista diversi per proseguire con la band. Per un po’ di tempo, essendo molto preso dal lavoro, non avevo previsto di fare nulla. Un giorno, sistemando gli archivi, ho iniziato a vedere i vari pezzi che avevo da parte e mi sono detto: «Mah, mi sa che voglio rimettermi a suonare dal vivo i miei brani». Così ho iniziato a incidere, capendo comunque che non era più mia intenzione fare parte delle dinamiche di una band. Alla mia età, ho già dato. Senza nulla togliere alle band e a chi ci si diverte. Ma siccome fare musica è il mio mestiere, non ho il piacere di farmelo insegnare da uno che ne fa un altro.

Dunque, c’era una volontà di espressione che doveva in un qualche modo essere colmata.

Ma sì. Tanto con quest’album io non ci vado a guadagnare niente, anzi, ci rimetto solamente.

Perché dici così?

Perché chi fa musica originale deve sapere che deve farlo principalmente perché lo vuole fare e non per i guadagni. Uno di 45 anni non può aspettarsi di diventare l’idolo dei teenager. Se guardi le band che sono sulla cresta dell’onda, sono tutte giovani. Quelli che hanno una certa età hanno storie particolari dietro o comunque sono band che sono su da tempo. Il successo lo hanno avuto in giovane età. È difficile alla mia età concludere un progetto e riempire gli stadi. Io lo voglio fare per me, perché ancora mi piace. Malgrado io faccia musica per vivere, e faccia anche il successo di altri artisti, mi piace comunque riportare me stesso nella musica. Perché la amo e ho necessità di esprimere qualcosa attraverso la musica e portarla su un palco.

Ed ecco che dal quando avevi capito di voler fare un disco, ci hai detto anche perché. Me ne rallegro. Perché hai scelto di chiamare il tuo progetto solista The Price?

Riuscire a fare della musica un mestiere non è come lavorare alle poste. Con tutto il rispetto, per fare un lavoro del genere ci sono delle prassi da seguire. Se sei bravo, ti prendono e poi hai quel mestiere lì. Nella musica no. Puoi anche studiare, ma se poi quello che fai non piace o non è fatto in una maniera che va bene per ciò che è richiesto dai committenti, non lavori. Questo vale per chiunque faccia un lavoro in proprio, ovviamente.
Per affermarti in campo musicale devi essere disposto a impegnarti molto. Per riuscire a farti conoscere e dimostrare il tuo valore, devi essere disposto a pagare un prezzo. Io non sono sempre stato il produttore di fama. Tutt’ora non mi ci considero, non sono di certo fra i primi in Italia. Faccio tante cose, ma non giro con la Porsche, per capirci. È sempre stata abbastanza dura.

The Price è dunque un concetto.

Sì. Se vuoi ottenere qualcosa devi pagarne il prezzo. E può essere a livello di tempo, di affetti. Io  sono ligure, e non avrei potuto fare quello che faccio se fossi rimasto a casa. Io vivo a 250 km lontano dai miei genitori. Quando sei ragazzino va bene, ma poi i genitori invecchiano e non li vedi mai. Ci sono sempre delle cose da mettere in conto, sempre un prezzo da pagare. Capire se si è disposti a pagare questo prezzo è importantissimo. Io vedo tante band che mi dicono di voler fare di tutto e diventare famosi. «Sì, ma: siete disposti a pagarne il prezzo?». Non parlo di soldi. Per far partire un progetto ci sono degli step che non vanno ignorati. I vari talent show permettono di scavalcarne alcuni.

Tu sei uno spettatore di talent?

Beh, sì. Con molti di questi ci lavoro. Non ho nessun tipo di giudizio. Sono solo una vetrina come un’altra. Se fai schifo, non vai da nessuna parte. Se hai qualcosa da dire, arriva, a meno che non ti autofagociti. Se avessi una band e avessi 20 anni, parteciperei a un talent show. Starei molto attento ai contratti che mi vengono proposti. Mi tutelerei con un avvocato prima di firmare qualsiasi cosa. È che molta gente vede la superficie e non sa cosa c’è dietro. Non sa cosa vuol dire passare le notti in studio a cercare di concludere un lavoro perché lo si fa nei ritagli di tempo. O telefonare a mezzo mondo per cercare di avere delle serate, farsi chilometri in furgone dormendo chissà dove per andare da un concerto all’altro quando hai dei tour a basso budget. O suonare, dopo tutti quei chilometri.

Di questo prezzo, qual è la percentuale che si può relegare al cambiamento? Mi spiego: tu hai iniziato ad abitare l’universo di chi fa musica, o semplicemente lavora con la musica, all’inizio dei ’90. Ad oggi, la musica stessa è cambiata, con la sua fruizione e diffusione. È cambiata la società. Tu che ne pensi?

Quando ho cominciato io, già mi dicevano che i bei tempi erano andati, figurati! Il cambiamento maggiore comunque è che adesso c’è proprio la totale vittoria del tutto e subito. Per dire: quando io ho iniziato, due/tre mesi per fare un disco te li davano. C’era un budget che permetteva all’artista di stare in studio, pensare di più ai brani, sperimentare diverse cose, cercare e trovare diverse soluzioni. Adesso si arriva in studio giusto per registrare le ultime cose. Il grosso viene fatto da chi produce o dall’artista stesso, ma comunque non in studio. O a casa, oppure in un home studio. Il tempo in studio è millimetrico per registrare le cose che si sono già sperimentate, magari in brutta copia, ma precedentemente. Lì si mette in bella copia, si mixa e si chiude. Questa cosa fa un po’ effetto catena-di-montaggio rispetto al passato.

Dunque mi parli di tempo.

Sì, quando ho iniziato io ci prendevamo più tempo per fare le cose. E si riusciva anche a ponderarle meglio. Adesso con la fretta di chiudere i dischi, capita di farne alcuni che poi magari ascolti e se pure sono venuti bene, potevano venire meglio. Con i budget attuali però è così. Mi ricordo che a metà anni ’90 avevo fatto un disco di una cantante italiana emergente, tra qui e gli Stati Uniti. Il budget che le era stato dato era di 80 milioni di lire. Considera che quella era la media di budget che all’epoca veniva data a un emergente che non aveva neanche poi grandi speranze di fare chissà cosa. Adesso è impensabile. Un budget simile è fuori da qualsiasi logica. Se un discografico dà un budget simile a un emergente lo licenziano. Lo uccidono proprio.

Non mi è difficile crederlo. Piuttosto mi viene da chiederti: Perché questa fretta? A cosa è legata secondo te?

Intanto, grazie ai vari Napster, al semplice iPod e il fatto che tutti scaricavano musica senza che questa cosa fosse perseguita in nessuna maniera, adesso c’è la percezione che la musica debba essere gratis. Ed è una cosa sbagliatissima perché per fare un disco bene ci vuole tempo e molto lavoro. Così, sapendo di non avere chissà che sostegno economico alle spalle, gli artisti vendono poco. È un serpente che si morde la coda. Purtroppo le poche vendite riducono il budget e quindi la cura che si ha anche sulla scrittura. C’è un appiattimento sul cercare di fare qualcosa che funzioni. A molti non interessa neanche che sia di qualità, per esempio.

Davvero?

Sì. A me è capitato di lavorare con artisti che con me facevano solamente singoli ,e poi nel disco trovavi le batterie in synth programmate. «Tanto suona bene lo stesso». Sì, ma non è assolutamente la stessa cosa. Oltre al fatto che non c’è nemmeno il confronto coi musicisti. La musica commerciale mainstream c’è sempre stata, ma a essere calata è la quantità di musica bella, e di persone che si danno da fare per realizzare dei dischi belli. E questo perché sono investimenti onerosi da fare. A me piacciono tantissimo i Katatonia. Adesso sono fermi, ma il vecchio batterista ricordo quando disse di lasciare perché non riusciva a vivere di musica. La cosa triste è che chi ascolta queste band, non si rende conto che nel momento stesso in cui non compra il disco, sta facendo in modo che di band così non ce ne siano più, capisci?

Sì.

Nel momento stesso in cui ti scarichi l’mp3 abusivo vuol dire che non stai danneggiando Robbie Williams, ma quelli che ti piacciono. Stai danneggiando le band come i Katatonia, i Porcupine Tree, Steven Wilson. Insomma, non fai un torto ai Led Zeppelin. Loro i soldi non sanno neanche dove metterli. E questo perché li hanno fatti quando c’erano! Io vedo lo stato attuale delle vendite dei dischi e vedo persone che magari vincono il Festival di Sanremo e poi il disco vende 4000 copie. Cioè, io le ho vendute con i Cayne 4000 copie. È una cifra con cui non vai da nessuna parte. Non solo non ti compri la Porsche, ma neanche fai un disco successivo.

Mi viene in mente che l’effetto catena di montaggio renda un prodotto perfettamente sostituibile e quindi non importante.

Sì. E poi c’è questa concezione che la musica deve essere gratis e non è così. In ogni caso, se tu ascolti Spotify – io ce l’ho, ho comprato il premium – e se pure senti bene comunque non c’è paragone con l’ascoltare un album su cd. Spotify suona molto più da schifo, così Youtube. La gente però si è abituata ad ascoltare la musica dal telefonino. Il suono così è molto più compresso, schiacciato, meno definito, meno intellegibile.

Diresti che col tuo disco tu voglia sollevare anche questa questione?

Beh, non proprio. Il titolo del disco è “A second chance to rise” e parla di altro. Parla delle possibilità, della seconda occasione per rialzarsi e fare qualcosa della propria vita. È comunque un dire «a me non me ne frega niente, voglio continuare a fare cose belle, anche se non si vendono e sto lottando contro i mulini a vento come Don Chisciotte».
Così, cerco di portare in giro la mia musica e portare avanti quello che mi piace, a prescindere dai risultati che otterrò, sapendo benissimo che è una battaglia persa.

Ci sono però delle cose belle, dai. Quali sono i dischi che ti piacciono?

Ma sì, ci sono dei dischi molto belli. A me piacciono i Katatonia, come ti dicevo. Alcune cose dei Bring Me the Horizon mi piacciono molto. Ci sono i Karnivool. Questo tipo di cose qua. I Nothing More. Dicevo anche Steven Wilson. I Procupine Tree mi piacevano tanto.

Di band o artisti italiani invece? C’è qualcuno che ti ha colpito?

In Italia mi colpisce la totale assenza di una scena rock. Nel senso che c’è, ma manca la rappresentanza. Il supporto dei fan è praticamente nullo e questa è una cosa tristissima. All’estero non è così. Chi ascolta metal ti riempie gli stadi solo quando vengono i soliti quattro gatti, ovvero gli Iron Maiden, i Metallica e via dicendo. Con loro hai le folle oceaniche. Poi alla band italiana che fa quella roba lì, altrettanto bene, magari tirano le bottiglie. I fan sono tanti, però mi chiedo: dove siete quando c’è da sentire band altrettanto interessanti? I Nothing More hanno suonato al Legend Club a Milano. È un posto bellissimo, fanno cose molte belle, ma è piccolo. Gli Antimatter hanno suonato al Blues House a Milano. Quello è un posto dove suonano le cover-band. Non dico niente contro il locale, ma mi dispiace che band simili abbiano poca risonanza.

Mentre invece il Forum D’Assago…

Esatto. Te lo ritrovi imballato per delle cose viste e riviste. A me piacciono gli Iron Maiden. Però ci vorrebbe più sostegno anche per le novità. Tempo fa parlavo con Ringo di Virgin Radio e lui mi ha detto che per scelte editoriali, Virgin Radio non passa più emergenti. Secondo loro hanno più riscontro passando gli stranieri e i grandi classici. Poi, puoi passare una cosa straniera che fa schifo e avercene 100 italiane fatte meglio, ma che non passano mai. Uguale su Radiofreccia. Ci sono però anche delle radio che se ne fregano e passano esattamente quello che piace a loro. Tipo lo Studio 54. “Tears roll down” l’hanno passata in heavy rotation per diverso tempo lì. E semplicemente perché è arrivato il pezzo ed è piaciuto.
Altri mi hanno detto che il pezzo era bello, ma non potevano passarlo. E ti parlo di gente che conosco di persona.

E tutto questo è un problema, no?

Sì. Perché uccide anche la possibilità di farli questi dischi. Se tu fai un bel disco rock che non trova uno spazio, questa cosa va a scontrarsi con la peggiore fuffa fatta da una band qualunque che da un giorno all’altro ha preso due strumenti e ha voluto fare un disco. Chiunque può farlo. Si registrano in presa diretta 10 pezzi in un paio di giorni, si mixa alla meglio e peggio ed è fatta. E io ne sento di dischi fatti così. E vedo che c’è una promozione vera e propria. E magari li trovi a suonare nei locali. Però io non faccio le cose a quel livello e nemmeno mi va. Purtroppo però non è che c’è un metro di paragone che può essere radiofonico. Se pure fai cose mainstream, con sonorità che all’estero possono andare – anche perché io li mixo quei dischi lì.

I Lacuna Coil, per esempio?

Esatto. Io ho mixato il loro ultimo disco, ma anche i precedenti. Loro vanno in America, fanno i tour, vanno in radio. Il mio disco non è che suona peggio. È diverso, ma suona così. La carenza di spazi e canali purtroppo non solo uccide il mercato, ma la stessa possibilità di fare cose di livello e proprio perché non vanno da nessuna parte. Puoi promuoverlo all’estero, sì. Ma poi all’estero ci devi andare. Devi stare là dei mesi e cercare di far partire il progetto lì. Non puoi sperare di fare successo all’estero stando qui. I Lacuna Coil in America ci sono andati. E si sono arrangiati. Mangiando gran panini e lavandosi in auto grill!

Oltre ai Lacuna Coil hai lavorato con tantissimi altri artisti. Tra gli ultimi, appunto, Enrico Ruggeri, una tua vecchia conoscenza. Mi domando come avviene la scelta degli artisti. Li scegli tu o vieni scelto?

Magari potessi sceglierli! Sei tu che vieni scelto da un committente. Così è successo con i Pooh, ad esempio. All’inizio ero stato chiamato dai discografici di Roby Facchinetti per rendere un brano più radiofonico. Era “Ma che vita è la mia”. Ne ho fatto una versione proprio diversa. Anni dopo, mi ha richiamato e non mi aspettavo di arrivare in studio e trovare la formazione completa anche con Stefano D’Orazi. Praticamente, mi hanno proposto di prendere in mano dei loro vecchi classici e dargli una veste nuova perché volevano fare la reunion per il cinquantennio. E volevano fare delle versioni dei brani che potessero essere più rock e attuali.

Questa è una notizia interessante. Vista la poliedricità della tua attività di musicista ti domando se tra produzione, creazione, esecuzione c’è una dimensione che preferisci vivere.

Mi piacciono tutte le dimensioni. Se per un po’ non ne faccio una, mi manca e mi viene voglia di farla. A a me piace variare. Quest’anno volevo tornare sul palco e mi sono fatto i tour con Roby Facchinetti e Riccardo Fogli. Abbiamo fatto un bel po’ di concerti, sia in estate che in inverno. Adesso sono stato preso dal Festival di Sanremo. Ho curato il mix broadcast per Ultimo, Patty Pravo e Briga, Francesco Renga e Il Volo. Poi sto producendo il nuovo disco degli A Perfect Day, la band di Andrea Cantarelli dei Labyrint. Devo anche finire la produzione dei Cantiere 164. Loro sono dei ventenni su cui ho puntato molto.

Cosa ti ha colpito di loro?

Li trovo freschi, originali. Pur non essendo per forza moderni. Hanno vent’anni, ma si ispirano al grunge anni ’90, a diverse band particolari che mi piacciono, e le loro cose sono interessanti, hanno un’identità interessante. Sono musicisti poi, ragazzi che studiano. Sanno suonare. Sono persone che hanno deciso di impegnarsi seriamente nella musica e non lo fanno tanto per passare il tempo. Riconoscendo questo spirito, ho deciso di supportarli. Sono già usciti tre singoli e adesso chiudiamo l’album che uscirà più avanti. Poi, ho diversi dischi da mixare, tra cui il nuovo dei Matia Bazar. Insomma, ci sono ancora. Più avanti, voglio scrivere altri brani per il secondo capitolo di “The Price”.

Quindi vuoi ci sia una continuazione?

Sì, certo. Sto cercando anche delle date per andare in giro. Poi, il progetto stesso sta assumendo la forma di una band perché Guido Carli è comunque sempre assieme a me. C’è anche Claudio Sannoner. Sia lui che Guido erano in tour con me e Roby Facchinetti. Dal vivo poi ci sarà Axel Capurro, il cantante degli Anewrage. Lui è un ragazzo molto giovane e molto bravo che sul disco ha cantato “My Escape” e “Electric Compulsive Possession”. Chiaramente non avendo tantissimo tempo non posso andare a suonare ovunque come avrei fatto da ragazzino. Devo cercare delle situazioni fattibili, ma di livello e che permettano di avere una buona resa. E siamo alla ricerca.

Quindi il tour non è ancora settato.

Fare un tour in Italia è dire un parolone, eh! Leggi delle band che annunciano il tour 2019 e poi scopri che ci sono tre date in una birreria dove ti devi portare le casse da casa! Senza che faccio nomi, te ne accorgi da sola. Con i social poi, sembrano tutti delle rock star. Stanno tutti in posa, sono tutti belli e curati, coi tatuaggi fuori. Poi li senti suonare e dici «ah, ok, va bene». Se ci parli, sembrano delle rock star in tour. Poi magari, il lunedì mattina vanno a timbrare il cartellino. Massimo rispetto per chi lavora, ovviamente. Io me lo timbro da solo il cartellino quando vado in studio.

Ti è mai capitato di pentirti di aver lavorato su un disco o comunque se a riascoltarlo, lo avresti fatto diversamente?

Io ho mixato dei dischi brutti, ma la faccia non ce la mettevo io. Se il mio lavoro è fare il fonico o il mix, cerco di farlo al meglio che posso, così che se anche i tuoi pezzi sono brutti, almeno suonano bene. Di più non posso fare. Chiaramente, cerco di fare il meglio. Agli inizi comunque sì, ero insoddisfatto. Anche adesso a volte. Poi, farei diversamente tutti i dischi che ho fatto. Ma perché se pure oggi mixo qualcosa, dopo tre mesi lo farei diversamente. È fisiologico. C’è chi dice che i mix non si finiscono, ma si abbandonano. Però non è che mi rende triste questa cosa. Mi è persino capitato di non ricordare di aver fatto dei dischi, ascoltarli e stupirmi del buon risultato. Ma anche di riascoltare roba e non riconoscermi.

Capisco. E immagino che possa accadere anche a chi compone senza produrre, il fatto di cambiare idea su qualcosa che ormai è fatto.

Se fai il tecnico, hai un committente che ti dice cosa fare e cosa non fare. A me è capitato di fare dei dischi molto famosi che mi sono piaciuti e altri, dello stesso artista, che non mi sono piaciuti per niente. Magari è perché non ho avuto modo di lavorarci bene come nei dischi precedenti, non so. È successo anche di non lavorare più con alcuni produttori perché non mi mettevano in condizione di lavorare al meglio. Quelle cose ti dispiacciono. Poi, ci sono anche dischi di cui mi sono vergognato. Dischi che sono andati bene, ma che erano di un genere che a me magari faceva schifo. Ma non puoi rifiutare tutti i lavori, no? Come le paghi le bollette?

Mi domando se lavorare a qualcosa che non ti piace possa minare la riuscita finale.

No. Mi concentro sul suono, sull’obiettivo della musica che sto facendo. Più che altro, ci sono dei generi che ho scelto di non trattare, cose che non faccio perché non le voglio fare. Mi è capitato con dei discografici che mi mandassero dischi di gente che non mi interessava e ho dovuto dirlo di non chiamarmi più. Non è tanto perché mi fa schifo la musica in sé, ma magari non voglio avere a che fare con certi tipi di persone. Ogni genere musicale ha delle tipologie di personaggi che lo fanno.

Approfondisci.

Non voglio lavorare coi tossicodipendenti. Parlo di gente la cui musica attualmente va. Ti dico questo. Non è mia abitudine frequentare certa gente, né voglio farlo. Non voglio veicolare certi messaggi. Se avessi dei figli che ascoltano lo Sfera Ebbasta della situazione, io starei male. Non voglio che certa roba passi grazie a me. Vedo che tanta gente che fa il mio mestiere si è buttata su questa roba perché adesso va. Io guadagnerò qualche euro in meno all’anno, ma voglio continuare a fare i dischi coi miei vecchietti o di chiunque altro, ma non quello. Sono scelte etiche, anche, no?
Poi ho fatto anche dei dischi che mi sono piaciuti tantissimo, ma che mi hanno lasciato con una grande tristezza addosso.

Perché?

Per come è finita. Tipo che il committente sparisce e non paga. Dischi interi per cui mi è stato pagato solo l’anticipo e mai il saldo. In cui dici «Bello il disco, sì. Però, magari, se non lo facevo era meglio» (ride).

Devo confessare di trovare in te una certa energia, se non rabbiosa, densa. Sbaglio?

Questo fa sempre parte di The Price, del prezzo da pagare. Come lavorare con gente che neanche ti ringrazia o che magari prima fa il disco con te perché gli piaci e poi, una volta avuto successo, lo fa da un’altra parte perché magari si vergogna del fatto che quel disco non me l’ha pagato. È successo. Poi magari vedi anche che il disco successivo è andato peggio del primo e non puoi far altro che dire «affari vostri, il prezzo l’avete pagato» (ride).

Perdonami, ma mi chiedo come sia possibile. Non perché venga dalla montagna del sapone, ma non posso non dirmi sorpresa.

Beh, quando fai un disco fai la tua bella fattura, ci paghi l’IVA, i contributi e non rimane più niente perché tanto per pagare il tecnico c’è l’acconto. Ma il saldo? Allora cerchi il committente che magari è scappato in un altro stato. Comunque, è sparito.

Cambiamo registro e passo alla mia domanda di rito: qual è il concerto che Marco Borusso non si può perdere?

Negli anni mi sono piaciuti molto i festival metal dove c’erano tante band. Ogni tanto li fanno ancora e secondo me, nella vita, uno di questi festival va vissuto. Poi, non so. Di concerti ne ho visti tanti. Uno di quelli che mi ha veramente impressionato è stato quello dei Catatonia ai Magazzini Generali, a Milano. Quello non è un posto felicissimo per i concerti, visto che è un capannone. Loro però avevano un bel suono e hanno fatto un gran concerto. Poi, c’è un concerto a cui sono stato che so non sarà possibile rivedere: quello di Bob Dylan nel 1988 o ’89. Perché quel tour fu peculiare.

Ce lo racconti?

Considera che lui aveva lasciato la band di Tom Petty. Tornò sul palco, dal vivo, in maniera totalmente scarna: lui e un altro con la chitarra elettrica, un bassista e un batterista. Basta. Sul palco, solo gli amplificatori. Fecero un concerto super rock, tutto tirato. Bob Dylan che faceva dei suoni con la chitarra bellissimi. E nessuno se lo aspettava. All’epoca avevo i capelli ed ero abbastanza spettinato. Ad ogni modo, dopo quel tour è tornato a essere il solito Bob Dylan. Insomma, fu interessante. Poi, ne ho visti tanti di concerti notevoli. Vorrei vedere i Gojira. Sono curioso di vedere anche i Karnivool e pure Steven Wilson.

Ultima domanda. In realtà, è un invito a dare dei consigli a chiunque voglia approcciarsi allo studio del suono. Accetti?

Certo. Un consiglio valido per qualsiasi ambito musicale è «non ci sono scorciatoie». Bisogna studiare. Può sembrare, dai vari personaggi alla ribalta delle classifiche e delle cronache, che si possa fare tutto questo senza fare niente. Sappiate che questi qua li vedete adesso e fra un annetto non li vedete più. Loro sono semplicemente il prodotto commerciale in un sistema di business che prevede che ogni anno ce ne sia uno nuovo. Dopo i prodotti usa e getta ci sono quelli di qualità che hanno respiro maggiore. Magari qualcuno dura anche perché si evolve e fa qualcosa di buono, ma chi pare abbia preso una scorciatoia è perché non va lontano.

Insomma, bisogna essere seri.

Certo. Bisogna mettersi in testa che la musica è un lavoro e bisogna affrontarla con serietà. Per lavorare bene bisogna sapere cosa si fa. Se uno vuole fare il musicista deve saper suonare, conoscere l’armonia, un po’ di tecnica, un po’ di elettronica. Deve sapere come vengono fatte le cose. Deve sapere anche qualcosa di come funziona il business. Tutto. La figura mitologica del musicista fuori di testa non esiste. La si vede solamente nei telefilm. Esisteva solo negli anni ’60. Infatti, quei poveracci si sono ritrovati tutti senza una lira, o morti drogati. In realtà, chi lavora nella musica, è una persona che si alza al mattino, si mette lì e scrive i pezzi. Ne fa dieci per averne uno buono. La creatività va sviluppata, come un muscolo. Un errore che vedo da tanti giovani è scrivere quattro canzoni e credersi Beethoven. Non siete Beethoven!

(Rido). E poi?

Poi occorre ascoltare. Di tutto. Anche chi credi non ti piaccia. Non è che se ti sta antipatico un artista allora non lo ascolti. Magari ha fatto cose interessanti. Ascoltare musica diversa dal solito, inoltre, aiuta anche a fare cose che non avresti fatto altrimenti. Se io facessi solo reggae e ascoltassi solo reggae, io non farei bene neanche il reggae.

Mi trovi d’accordo. Io non faccio musica, ma mi trovo a riflettere sull’identità musicale di un prodotto e ritenerla valida quando si intuiscono, se non si conoscono, delle aperture. Non è affatto scontato, no?

Sai, una volta mi è capitato di fare un disco di un genere che non avevo mai ascoltato tantissimo, il death metal. Ai tempi non avevo molta cultura a riguardo e ricordo che a me le canzoni sembravano tutte uguali. Invece le recensioni dicevano che il disco era troppo variegato ed eterogeneo. «Questo è troppo black quello troppo death». Capivo che dovevo istruirmi, evidentemente (ride). Riascoltandolo ho capito a quali differenze, comunque minime, si riferivano. Certi generi sono veramente settari, sì. Una cosa che mi dispiace è questa cosa dell’essere veramente attaccati a un’identità. Tipo che sei fai black metal non puoi fare altro, devi vestirti in un certo modo, fare i video nei boschi pitturato in faccia come un panda. Lo trovo ridicolo. È l’identità del nulla.

Siamo arrivati alla fine. Ti saluto dicendoti che “A Second Chance to Rise” lo recensirò io personalmente. Sarò curiosa, dopo l’aneddoto che ci hai raccontato, di capire se avrò centrato il fulcro di The Price. E con questa indiscrezione, ti ringrazio della disponibilità e ti do un grosso in bocca al lupo!

Ti dico intanto che una cosa importante del disco è che una linea guida, tra i vari brani, c’è. Scovala! Grazie a voi e a presto!