Ci sono alcuni registi inevitabilmente legati a un solo film. Un binomio rischioso perché spesso equivale all’aver fatto una sola cosa buona – un film in questo caso – ma ad averla fatta proprio bene. Una definizione che potremmo applicare toutcourt a Florian Henckel von Donnersmarck il cui nome, più lungo della sua filmografia, è rimasto ancorato a quell’inaspettato capolavoro che fu “Le vite degli altri” (2006). Il regista tedesco ci aveva riprovato nel peggiore dei modi con un’opera seconda più che dimenticabile, “The Tourist” (2010), tanto invisibile da poterci permettere di considerare questo suo terzo film la sua seconda regia. E ci permettiamo anche di dire che d’ora in avanti il nome di Donnersmarck non finirà più nell’associazione diretta con Stasi e DDR.
“Opera senza autore” (Werk Ohne Autor), passato in concorso a Venezia e dal 4 ottobre nelle sale italiane con 01Distribution, è un’opera ambiziosa nella lunghezza e nel soggetto. Ben 188 minuti, ispirati da una storia realmente accaduta tra il 1937 e il 1968 in Germania. Trent’anni fondamentali che hanno cambiato il volto politico e umano della storia tedesca ed europea narrati attraverso la crescita di un aspirante artista. A Dresda, Kurt (Tom Schilling) è un giovane studente di pittura che si innamora di Ellie (Paula Beer, che due anni fa qui a Venezia vinse il Mastroianni come migliore attrice emergente), sua compagna d’accademia e aspirante modista. Il padre della ragazza, il professor Seeband (Sebastian Koch), rinomato ginecologo, è contrario alla loro relazione e non si farà alcuno scrupolo per porvi fine. Nessuno sa però che le loro vite sono già legate da un orrendo crimine, commesso da Seeband decenni prima.
Donnersmarck non dubita di ciò che vuole dire e sa già come arrivarci, e così facendo riesce per tre ore a non farsi scappare di mano il proprio film.
“Opera senza autore” è un affresco coraggioso, pericolosissimo sulla carta, data la vastità e la complessità dell’arco temporale ricoperto. Eppure tutto funziona inaspettatamente. Il più grande merito del film è aver utilizzato i momenti storici narrati solo come sfondo della vicenda. Donnersmarck non vuole ritrarre un paese né ambisce all’epopea storica. Piuttosto, come nel suo film precedente, costruisce e riprende tutto a misura d’uomo. Le svolte novecentesche (dal Nazismo alla Restaurazione Socialista, fino alla divisione Est-Ovest) sono riprese orizzontalmente, mostrate dall’interno e nelle loro conseguenze sul destino del protagonista.
Nonostante l’ispirazione autentica, la sceneggiatura è costante, onnipresente e salvifica. Durante la visione ti chiedi se tutti i dettagli troveranno un senso in queste congiunture ampissime tra passato e presente, da Dresda a Düsseldorf, (con un rapido passaggio berlinese prima che venga tirato su il Muro). Un po’ ti rammarichi della fretta con cui Donnersmarck sorvola e bypassa contesti storici vastissimi, mancando volutamente di approfondire indizi e spunti sostanziosi, ipotesi per tanti film da farsi. Ma se lo fa è perché ha in testa qualcosa. Non sai ancora cosa ma lo capirai al termine.
Il regista non dubita di ciò che vuole dire e sa già come arrivarci, e così facendo riesce per tre ore a non farsi scappare di mano il proprio film. “Opera senza autore” non è un progetto stentato. Donnersmarck non azzarda un discorso mentre lo gira, ma lo prepara minuziosamente sulla carta. Motivo per cui non si incontrano momenti di stanca, né si lanciano occhiate impazienti all’orologio. Anzi, incredibilmente vorresti che continuasse, ti viene anche voglia di ripartire da capo, stupito della capacità con cui ogni dettaglio è stato motivato.
“Opera senza autore” si mette a fuoco lentamente tra le dita di un bambino, si rivela nelle sovrapposizioni fatali tra fotografie e dipinto.
Il film si appoggia su un doppio registro, sapientemente intrecciato e avvedutamente selezionato. C’è la trama, consistente ma lineare, ma c’è soprattutto una direttrice meta-artistica che la sorvola, si rituffa in essa, esce dai personaggi e dalle loro vite ma ne indirizza le esistenze. Donnersmarck ha fiducia nell’impianto classico e nei meriti del cinema narrativo. Sa bene di non poter escludere né l’autorialità né il classicismo, quindi li fa stringere in un abbraccio sentito, mai ruffiano e soprattutto mai pretenzioso. I momenti di lirismo si affezionano ai personaggi. Le concessioni poetiche si affiancano alle descrizioni sentimentali.
Le immagini si susseguono libere da arrovellamenti intellettualistici, lasciando che i punti di svolta del racconto incrocino con chiarezza quelli di un discorso artistico efficace, alto ma non altezzoso. “Opera senza autore” si mette a fuoco lentamente tra le dita di un bambino, si rivela nelle sovrapposizioni fatali tra fotografie e dipinto. Una tela volutamente bianca lasciata in attesa della verità. Arriverà in silenzio, impressionata dallo spalancarsi delle imposte. La luce filtra dalla finestra, l’acqua dei pennelli sbiadisce i ricordi familiari, nel bisogno salvifico di liberarsi del passato senza rinnegarlo. “Veramente” equivale a dire l’esatto contrario e allora nulla è mai vero del tutto.
La tela smette di decantare il vuoto e comincia a riempirsi di memoria. Ritagli di giornale e foto di famiglia sono i testimoni di qualcosa che è stato, che è accaduto davvero. Giunge il momento di ingrandirli, di incasellarli con un tiralinee e di dimenticarli, infine. Allora neppure il dolore è mai del tutto un male, quand’ecco che da esso sgorga un’occasione per ritrovarsi geniali, ispirati e fecondi. Opera senza Autore comunica una sensazione di possibilità sconfinata, come quella che si proverebbe spalancando le braccia storditi dal clacson di dieci corriere.
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