Negli ultimi anni il cinema francese ha originato numerosi titoli ascrivibili a un cinema a metà tra il pedagogico e il solidale. Hanno mietuto incassi milionari imputabili non solo all’inflazionato bisogno di ridere, ma soprattutto all’intelligente progettazione che ne stava alla base. Basti pensare alle solo apparentemente disimpegnate commedie “Quasi Amici” (2011) o “Non sposare le mie figlie” (2014), incrociando poi su altre traiettorie morali “Giù al Nord” (2008). A questi si è affiancata un’altra compagine più esplicitamente autoriale, inscenata nei luoghi d’insegnamento d’oltralpe. Come la Palma d’oro “La classe” (2007), e un più recente film da fuori concorso veneziano, “La mélodie” (2017). Esattamente al centro di questi due filoni si situa “Quasi Nemici – L’importante è avere ragione” del regista-attore Yvan Attal. Il bizzarro, ben eseguito e in qualche modo sorprendente dramedy affida ai dialoghi il divertimento, ma ambisce a far pensare. Riuscendoci.
La sceneggiatura di “Quasi Nemici – L’importante è avere ragione” è ispirata dalle gare annuali di retorica tenute nelle più prestigiose facoltà di legge francesi.
Neïla Salah (Camélia Jordana) è cresciuta nel sobborgo parigino di Créteil, sognando di diventare avvocato. Nel suo primo giorno alla prestigiosa Université D’Assas di Parigi, si scontra con Pierre Mazard (Daniel Auteuil), un insegnante noto per il suo comportamento irriverente e provocatorio. Richiamato dal rettore per il suo comportamento, il professore, per riscattarsi, accetta di preparare Neïla per il prestigioso concorso annuale di retorica. Pierre potrebbe diventare il mentore di cui ha bisogno, ma devono entrambi superare i loro pregiudizi.
Scritta dal regista insieme a Victor Saint Macary, Yael Langmann e Noe Debre, la sceneggiatura è ispirata dalle gare annuali di retorica tenute nelle più prestigiose facoltà di legge francesi. Qui gli studenti sono invitati a perorare una vasta gamma di argomenti nel modo più eloquente. Ne deriva un film allo stesso tempo politico, sociale e leggero e divertente. Apprezzata la scelta del regista di non raccontare le periferie metropolitane concentrandosi sulla difficoltà del viverci. Yvan Attal si tiene lontano dall’inchiesta sociologica che qui sarebbe quantomeno fuori luogo, ma si muove con emozione attorno al personaggio di Neïla. La donna, di origine algerina, è vittima del modo in cui, negli anni post–Charlie Hebdo e del terrorismo islamico, le persone restano intrappolate in categorie di pregiudizio.
Il dramedy “Quasi Nemici – L’importante è avere ragione” riesce anche a parlare del nostro tempo e di ciò che siamo oggi attraverso personaggi e situazioni di riuscita credibilità.
“Quasi Nemici – L’importante è avere ragione” avanza l’idea che dobbiamo fare lo sforzo di capire il paese in cui viviamo per godere concretamente del suo patrimonio culturale e storico. Grazie ai letterati e ai filosofi del passato possiamo comprendere la necessità di pensare per noi stessi, di costringerci a interrogarci sul presente. Uno dei problemi di un film che punta a un tale obiettivo è garantire che lo spettatore non si annoi, nonostante la forte presenza di monologhi e scontri verbali tra i due protagonisti. Al contempo, è necessario che lo spettatore ascolti veramente i dialoghi su cui si poggia l’intera durata del film. Per queste ragioni tutto è messo in scena semplicemente, attraverso logiche classiche di campo e controcampo e movimenti sempre fluidi della cinepresa.
Ne consegue una serie piuttosto prevedibile di situazioni sempre tenute insieme da uno script scorretto e tagliente. Pierre istruisce Neïla sull’arte del discorso, cita Schopenhauer e Rabelais e le fa leggere Nietzsche a voce alta con una penna in bocca. Infine, sulla metropolitana di Parigi, la costringe a ripetere più e più volte il suo assioma preferito: “La verità non importa, ciò che importa è avere sempre ragione”. Nel frattempo, Neïla cerca di coniugare le nuove abilità comunicative e la vita privata, soprattutto la relazione con un ragazzo locale (Yasin Houicha) che non condivide esattamente la sua stessa capacità oratoria. Intanto, tornato a Parigi, il solitario Pierre fa lo stesso con alcolismo e solitudine, riproponendo il cliché per cui un grande professionista non è per forza un grande uomo.
Neïla, di origine algerina, è vittima del modo in cui, negli anni post–Charlie Hebdo e del terrorismo islamico, le persone restano intrappolate in categorie di pregiudizio.
Per quanto ripetitivo possa sembrare il tutto, Yvan Attal intreccia l’azione a una buona dose di commedia. Altresì, il film regala un duo di protagonisti ben scritti e che non si trasforma mai nella coppia caricaturale dell’intellettuale cinico e dello studente volenteroso. Pierre si esprime costantemente tra battute intelligenti e discriminazioni autentiche, incapace di tenere per sé le sue opinioni più discutibili. Dal canto suo, Neïla è pronta a rispondere alle provocazioni del suo professore, a dare il meglio, ma a poco a poco si ritrova conquistata dai modi di fare dell’uomo. La provocazione diventa ammirazione, fino a quando la loro relazione non incontra un ostacolo importante nell’ultima parte del film, forse risolta con troppa facilità.
L’idea di un maschio bianco, privilegiato e piuttosto bigotto, che riesce a insegnare a una ragazza araba della classe operaia il modo migliore per parlare il francese, può sembrare uno stereotipo razziale, colonialista in sé e per sé. Ma il fatto che il film riesca a non sbriciolarsi sotto il peso di questo preconcetto è una dimostrazione della leggerezza del tocco di Yvan Attal come regista, così come dei suoi attori principali. Sia Camélia Jordana, cantante di formazione che si ripropone con successo anche come attrice. Ma soprattutto Daniel Auteuil a cui è stato cucito addosso il personaggio di Mazard, una sorta di Pigmalione contemporaneo. Conservando lo tesso fondamentale cinismo della commedia di George Bernard Shaw, il film riesce anche a parlare del nostro tempo e di ciò che siamo oggi attraverso personaggi e situazioni di riuscita credibilità.