Sono necessarie delle premesse, prima di passare alla recensione vera e propria dello spettacolo. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini non sono semplicemente gli attori di “Reality”. La loro avventura è nata circa cinque anni fa, quando hanno deciso di dare una forma teatrale ad uno dei reportage di Mariusz Szczygieł, uno dei giornalisti più in voga della repubblica polacca. Si tratta di rappresentare drammaticamente la storia di Janina Turek, una casalinga polacca che trascorse tutta la sua vita a Cracovia, compreso il periodo della Seconda Guerra Mondiale, fino al 2000, anno della sua morte.
Con la deportazione di suo marito ad Auschwitz, accadde una cosa nella sua vita, che ebbe come effetto immediato una determinazione ad agire che l’avrebbe accompagnata per tutta l’esistenza: iniziò a tenere un diario, che la aiutò ad avere una vita normale. Morì di infarto sul ciglio della strada. La figlia maggiore, Ewa, sbrigando le solite cose che si fanno alla morte di un caro, venne a conoscenza del segreto di sua madre: la decisione di mettersi a scrivere, accumulando 748 quaderni. La straordinarietà della scoperta era nell’assoluta mancanza di una traccia di biografia nella gran mole di pagine scritte, riempite di elenchi di azioni e relazioni intessute con persone e cose, dove tutti sono soggetti e l’unico occhio oggettivo era quello della scrittrice imparziale che ha registrato pazientemente e in maniera certosina ogni dettaglio di una quotidianità, la propria.
La scenografia di “Reality” è essenziale ed estremamente fluida: alcuni riflettori sparsi sul palco, una serie di mobili e chincaglierie tutte posizionate in fila sul lato sinistro.
Forse è per questo che il reportage su Janina si è reso così disponibile alla teatralizzazione. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini hanno cercato di immaginare insieme come tutto possa aver avuto inizio, e lo hanno fatto partendo dalla chiusura. La scenografia di “Reality” è essenziale ed estremamente fluida: alcuni riflettori sparsi sul palco, una serie di mobili e chincaglierie tutte posizionate in fila sul lato sinistro. Janina è morta su un marciapiede, sorpresa da un infarto mentre tornava a casa con la busta della spesa. Come è caduta? Come muore una persona affetta da disturbo ossessivo compulsivo, che ha in mano una busta probabilmente pesante e addosso un cappotto per sopportare le rigide temperature di Cracovia?
«È più facile essere morta» asserisce, suscitando ilarità nel pubblico. Troppa. Quello che i due performer cercano di costruire davanti al pubblico è il mondo dei possibili totalmente sconosciuti che si cela dietro un impersonale elenco di azioni, cose, relazioni. Non c’è davvero niente da ridere.
Non è mancato il momento di ritorno all’origine da parte di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini: immedesimarsi nella reazione di Janina alla presa in custodia del marito ad opera dei tedeschi, e l’inizio dello sfogo su carta. L’ipotesi di disperazione viene scartata per un abbandono alla quotidianità, una routine rassicurante che si adagia sulle infinite pagine di quaderno tutte uguali scritte dalla casalinga polacca.
Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si arrovellano sul possibile sfondo emotivo di cui non c’è traccia nei quaderni.
Salutare persone, fare la spesa, bere caffè, raccogliere i cocci della tazzina di caffè, far cadere il telecomando e non saperlo riparare. Tutto questo viene sapientemente ragionato sul palco davanti al pubblico. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si arrovellano sul possibile sfondo emotivo di cui non c’è traccia nei quaderni. Solo la caduta del telecomando, evento che ha lasciato un segno nell’anzianità della donna, trova riscontro in una cartolina che lei spedisce a se stessa, dando sfogo alla sua disperazione, una disperazione data dal deperimento di una cosa che non è sostituibile qui ed ora.
I miracoli che avvengono sul palcoscenico potrebbero essere due: la scoperta dell’affidabilità di cose, di soggetti-che-sono, indipendentemente da Janina, che riescono a dare continuità ad un vuoto psichico senza lasciare segno alcuno, e lo sfogo nella scrittura che ignora il mondo interiore, che si aggrappa con forza alle cose, che non dà sintomo di un’ossessione per l’esteriorità che è una fuga dall’intimità. Un miracolo in cui Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si sono lasciati coinvolgere. Interessante il movimento sulla scena dalla morte, al caffè, alla poltrona in cui avviene la rottura del telecomando. Un movimento che poi viene ripercorso a ritroso e che si conclude dietro il bianco telo che, presumibilmente, era stato steso sulle spoglie ancora calde.
La maestria di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini ha rischiato di essere penalizzata per degli impedimenti tecnici.
La maestria di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini ha rischiato di essere penalizzata almeno sotto due fronti. Chi, come noi, ha assistito a “Reality” dalle ultime file non può non aver notato l’inadeguatezza del teatro stesso per il tipo di rappresentazione. Quasi ogni spettatore si è alzato per riuscire a capire cosa facessero i due attori sdraiati per terra. Sarebbe stato anche opportuno microfonare i teatranti. In uno spettacolo già impegnativo da seguire, non devono esserci impedimenti tecnici.
Nonostante tutto, l’idea del duo di “Reality” ha fatto scuola, e sta facendo scuola: attraverso una conversazione semplice e col cuore in mano sono stati capaci di ricostruire la tragedia della quotidianità di una casalinga, colorando la sua asetticità e cercando possibili contenuti pulsanti di vita sulla superficie, invece che nel profondo. Un tentativo valido perché si è fermato al limite. Come ogni tentativo di capolavoro della contemporaneità, tuttavia, necessita di tante e forse troppe parafrasi affinché sia intellegibile.